Il Congo alle urne, la cabala di Kabila
Trentatré candidati alla massima carica dello stato, 9.707 pretendenti ai 500 seggi della futura Assemblea nazionale. Le elezioni presidenziali e legislative previste per domenica prossima nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc) si annunciano come un evento storico: il primo voto libero e democratico in 40 anni per questo gigantesco paese, pari per dimensioni all'Europa occidentale. Un voto non privo di ombre, ma che si pone l'ambizioso obiettivo di chiudere quella faticosa transizione avviata dagli accordi di pace di Sun City (Sudafrica), che nel 2003 hanno posto fine - almeno sulla carta - alla cosiddetta «prima guerra mondiale africana».
La comunità internazionale, in primis l'Unione europea, appare impegnata in prima fila nell'organizzazione di questa consultazione: finanziamenti dell'ordine di milioni di dollari; dispiegamento di una missione militare ad hoc a guida tedesca, che deve affiancare la Monuc - la più cospicua e costosa missione Onu del pianeta - per garantire la sicurezza; squadre di osservatori incaricati di vigilare sul corretto svolgimento dello scrutinio. Ma i dubbi permangono: le elezioni del 30 luglio, e l'eventuale ballottaggio in data da definirsi, riusciranno a porre rimedio a tutti i mali del Congo? Le accuse di irregolarità della Conferenza episcopale, assai influente nell'ex Zaire, che ha minacciato di non riconoscere il risultato del voto; l'appello al boicottaggio di Etienne Tshisekedi, oppositore storico dell'ex dittatore Mobutu Sese Seko, che ha definito le elezioni «una farsa» e chiesto ai suoi sostenitori di non partecipare; la corruzione endemica che attraversa le istituzioni; i focolai di turbolenza ancora persistenti nell'est del paese; l'appoggio appena velato che la comunità internazionale dà al presidente di transizione uscente Joseph Kabila; l'esacerbarsi di discorsi xenofobi che già tanti danni hanno fatto nella regione dei Grandi Laghi; la scarsa preparazione di una classe politica formata in parte da ex signori della guerra, in parte da ex notabili dell' entouragemobutista, sono altrettante incognite che pesano come macigni sulle consultazioni di domenica prossima.
Un sottosuolo che fa gola
Eppure, la popolazione congolese - dopo una dittatura durata 32 anni seguita da due guerre che hanno causato 4 milioni di morti e almeno 2 milioni di sfollati - aspetta. La partecipazione di massa al referendum del dicembre scorso, che ha approvato la nuova costituzione e spianato la strada alle elezioni generali, è un segno che i figli dell'ex Zaire vogliono dire la loro; desiderano scegliersi la propria classe dirigente; anelano a una forma di normalità che non può che passare per le urne. Il modello transitorio scelto a Sun City, la cosiddetta formula 1+4 (un presidente e quattro vice-presidenti chiamati a gestire il paese) non ha riscosso grande entusiasmo, tanto da essere stata ribattezzata 1+4=0. I veti incrociati tra il presidente Kabila e i suoi quattro vice (i due ex leader di fazioni armate Jean-Pierre Bemba e Azarias Ruberwa; il rappresentante della società civile Arthur Z'Ahidi Ngoma, tutti e tre oggi candidati alla presidenza; e il «kabilista» Yerodia Abdoulaye Ndombasi) hanno reso difficile ogni decisione e permesso principalmente, attraverso una precisa divisione dei guadagni, la spoliazione del paese a beneficio degli stati vicini e delle grandi multinazionali straniere.
Perché - e questo è il grande paradosso - la Repubblica Democratica del Congo è potenzialmente uno dei paesi più ricchi del mondo. Il suo sottosuolo rigurgita di minerali ambitissimi (oro, cobalto, rame, coltan, zinco, cassiterite, uranio, diamanti), tanto da essersi meritato il soprannome di «scandalo geologico»; le sue immense foreste sono un serbatoio inestimabile di legname; i suoi laghi nascondono giacimenti di gas e di petrolio. Un patrimonio che, fin dall'epoca della colonizzazione belga, ha suscitato grandi bramosie e alimentato una sistematica spoliazione prima da parte del re del Belgio Leopoldo II, che aveva fatto del Congo un suo possedimento personale; poi dal maresciallo Mobutu, che accumulava con nonchalancericchezze spropositate in discreti conti svizzeri; infine, dopo la caduta del dinosauro, dagli stati vicini, soprattutto Ruanda e Uganda, e dalle grande compagnie internazionali, che hanno ottenuto negli ultimi anni contratti vantaggiosissimi al limite del saccheggio. Multinazionali belghe, francesi, svizzere, canadesi, americane, australiane, cinesi si sono accaparrate - in joint venturescon operatori locali e con il beneplacito del potere di transizione - l'oro dell'Ituri, il coltan del Kivu, il rame e il cobalto del Katanga, i diamanti del Kasai, il petrolio del Basso-Congo. La spoliazione è stata sistematica, i contratti leonini, al di fuori di ogni quadro legale. Ma l'argomento resta tabù: il rapporto di una commissione parlamentare d'inchiesta guidata dal deputato Cristophe Lutundula è rimasto per sette mesi nel cassetto e, una volta reso pubblico, non è mai stato discusso dall'Assemblea nazionale. Le denunce contenute nel testo, in primis la mancanza di trasparenza nella gestione delle risorse, si sono arenate in un muro di silenzio.
Un governo dominato da warlords
Già, perché l'obiettivo principale degli accordi di Sun City non era tanto quello di mettere ordine nella gestione delle ricchezze minerarie, quanto quello di far tacere le armi. E, per far questo, non c'era altra alternativa che tener conto degli equilibri sul terreno. È così che, con grande scandalo della società civile, il vice-presidente Ruberwa, ex leader dell'Rcd-Goma, fazione armata appoggiata dal Ruanda responsabile di massacri nell'est del paese, si è visto affidare il settore della difesa e della sicurezza, mentre il suo omologo Jean-Pierre Bemba, accusato a più riprese dagli esperti Onu di aver partecipato in prima persona al saccheggio, è diventato presidente della quot;commissione economia e finanzequot;.
Legittimati dalla guerra - e dai business ad essa legata - questi leader politici oggi sono candidati alla magistratura suprema. Ma difficilmente andranno lontano: Bemba, che ha una base nel nord, nella regione dell'Equatore, non è molto amato nel resto del paese; Ruberwa, membro della comunità tutsi banyamulenge del Kivu, è percepito come uno straniero. Se i due, e in particolare Bemba, non hanno lesinato mezzi per una campagna in grande stile, sembra improbabile che riescano a insediare il «pupillo» della comunità internazionale e stragrande favorito del voto di domenica, quel taciturno Joseph Kabila che, a 35 anni, è il capo di stato più giovane del mondo.
Il figlio di suo padre
Perché sarà lui, con ogni probabilità, a succedere a se stesso. Ma in un quadro istituzionale diverso: seppellito l'quot;1+4quot;, la nuova costituzione prevede un regime semi-presidenziale alla francese, con nomina di un primo ministro da parte del capo di stato eletto. Consegnata al passato la transizione, sono molte le sfide che, se sarà effettivamente eletto, attendono il «figlio d'arte» (Joseph è assurto frettolosamente ai vertici del potere dopo l'uccisione del padre, quel Laurent Désire Kabila che aveva rovesciato Mobutu). Il nuovo potere riuscirà ad affrancarsi dagli elementi più ambigui del suo entourage e a ignorare i consigli interessati di alcuni membri della comunità internazionale? Riuscirà a rilanciare un'economia in ginocchio e a dotare il paese di infrastrutture? Soprattutto, avrà il coraggio di rimettere mano alle concessioni minerarie?
Il voto di domenica sarà necessariamente seguito da un periodo di vuoto politico: almeno un mese, fino alla proclamazione dei risultati; fino a quattro mesi, se si dovesse andare al ballottaggio. Un periodo pericoloso, che aiuterà tuttavia a mostrare se il Congo è pronto a un nuovo inizio. E se quanti oggi affermano di voler ridare una speranza al paese sono dei veri statisti o dei semplici apprendisti stregoni.
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