La stabilità è come un boomerang
Dall'aprile al 25 luglio i nostri alleati hanno ucciso, nel corso di una offensiva nel sud dell'Afghanistan, 600 «presunti talebani». Altri talebani colpiti, sempre nel sud, li ho visti pochi giorni prima nell'ospedale di Emergency a Lashkargah: una donna, un bambino di quattro anni con la gamba attaccata al corpo solo per un brandello di pelle, suo padre morto dopo una notte di agonia. Ho visto anche un combattente, anzi due: uno di 16 anni col torace trapassato da un proiettile, l'altro di 19 con il cranio aperto da una scheggia.
Quanti tra i 600 talebani ammazzati saranno stati combattenti, quanti bambini, quante donne? Non importa. Non si distingue tra talebano e talebano, vige la legge del forfait.
Ma si pretende che gli afgani distinguano tra uniformi italiane e americane, tra blindati degli alpini e dei marines. Certo perché noi, seppur fedeli alleati degli Usa, siamo quelli buoni, in «missione di pace», quelli che pur in armi distribuiscono zainetti scolastici e pennarelli colorati. E poi, quale garanzia di pace migliore di quella che i nostri soldati resteranno in Afghanistan per volontà di tutto il governo di centrosinistra? Mica di quel cattivaccio di Berlusconi che ce li aveva mandati.
La tenuta della maggioranza è l'obbiettivo supremo e assoluto, quello su cui si misura il «senso di responsabilità» di tutti i partiti che la compongono. «Responsabili» verso se stessi, non certo verso la volontà popolare che li ha eletti e che dovrebbero rappresentare (un sondaggio recente del Corriere della Seradà il 61% degli italiani favorevoli al ritiro immediato dall'Afghanistan).
Ma è da tempo che la volontà popolare trova scarsa rappresentanza nel sistema dei partiti che rispondono solo ai poteri forti, nazionali e non, e a dinamiche sempre più autoreferenziali.
A riprova del fatto che quando si accetta di esportare democrazia in armi si ottiene solo di diminuire in patria la pratica della democrazia stessa, sino a mettere seriamente in discussione il valore partecipativo che dovrebbe esserne il fondamento.
Sulla missione in Afghanistan il governo chiederà la fiducia a se stesso per disinnescare il voto contrario di otto pericolosi senatori che ancora ritengono di dover rendere conto delle loro scelte alla propria coscienza e ai propri elettori piuttosto che alle segreterie di partito. Ricordo che, all'indomani del voto trasversale che infilò l'Italia nel macello afgano, un giornale di destra pubblicò in prima pagina le foto dei pochi parlamentari che avevano votato contro, additandoli come traditori; non mi stupirò se domani facesse lo stesso un giornale di centrosinistra o di sinistra. Forse non brinderò alla caduta del governo di centrosinistra ma certo nemmeno alla sua «ritrovata stabilità» perché il prezzo pagato sarà quello di tenere l'Italia ancorata e complice di una logica militare che alimenta e propaga guerra in quasi tutto il pianeta: dall'Iraq alla Palestina, dalla Somalia al Libano, all'Afghanistan.
Sarà la stabilità del governo che si è arreso ai tassisti e ora anche ai carristi.
Forse si impedirà il ritorno di Berlusconi. Ma nasce un interrogativo: perché?
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