«Israele è sotto attacco, ma sono crimini di guerra»
«Per queste stragi di civili si può usare tranquillamente l’espressione crimini di guerra. Se Hezbollah usa i civili come scudi umani, vuol dire che quegli scudi umani vanno “bucati”? E’ un argomento inaccettabile, disastroso per Israele». Stefano Levi Della Torre, pittore e scrittore, membro della comunità ebraica di Milano, non ha paura delle parole, nemmeno di quelle pesanti. Ma non si limita alla condanna, pure netta, il suo è anche un invito alla riflessione. «Detto questo - prosegue infatti subito -, vorrei ricordare a molti nella sinistra un altro dato, troppo spesso eluso».
Quale?
Partirei da una domanda che, se ignorata, rende difficile alla sinistra l’esatta percezione di quanto sta accadendo: chi, in Medio Oriente, è oggi all’offensiva politica? All’offensiva, e da molti anni oramai, è sostanzialmente il fondamentalismo islamico, una forza in crescita e radicalmente reazionaria. Se non si tiene fermo questo dato, si rischia di non vedere che l’aggressività americana e israeliana sono ormai di rimessa. Non vorrei che il trascinarsi della percezione per cui per molto tempo all’offensiva è stato l’imperialismo statunitense, facesse perdere di vista il fatto che stavolta Israele ha risposto ad un attacco, ad una minaccia reale visto che dietro Hezbollah c’è una potenza come l’Iran. Il che non significa che sia una buona risposta.
Eppure questo argomento ha finora prevalso nell’opinione pubblica israeliana, nonostante il costo difficilmente sostenibile di questa risposta.
In Israele si sottolinea il fatto che gli attacchi sono venuti dal Libano e da Gaza, vale a dire da dove gli israeliani si sono ritirati, e non dalla Cisgiordania, ancora occupata. Questa situazione viene vista come una sconfitta. E’ una riflessione molto importante. Chi in Israele aveva caldeggiato il ritiro, si trova ora in grande difficoltà. La sinistra è pressoché distrutta, perché le previsioni della destra si sono avverate. Questo è un ulteriore elemento di degenerazione della crisi, anche per lo stesso fronte interno israeliano.
Stiamo assistendo ad una deriva militare di un governo che pure aveva vinto le elezioni con un programma di pragmatica volontà di soluzione del conflitto. Una deriva definitiva?
Il paradosso è che Israele unisce una grande capacità militare e un difetto di politica. Von Clausewitz diceva che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Mi sembra che qui invece la guerra finisca con il sostituire la politica. Io sono convinto che l’opzione militare sia perdente. In più, nel lungo periodo, anche il primato tecnologico di Israele potrebbe essere messo in discussione e questo accresce la sensazione di vulnerabilità. Ecco perché la politica deve tornare protagonista e la politica vuole la trattativa, non l’unilateralismo. Il quale è un grande errore, perché così non si responsabilizza la controparte e si accredita l’idea che il ritiro sia una resa agli attacchi di Hezbollah e Hamas che ne escono rafforzati. E l’altro errore, legato al primo, è il pensare di non avere interlocutori per il negoziato. In Libano un milione di persone erano scese in piazza per dire no al dominio siriano, potevano essere interlocutori di Israele. Ora stanno con Hezbollah.
Colpisce la debolezza o comunque la grande difficoltà con cui la società civile israeliana si pone di fronte a questa guerra. Stavolta la paura legata alla sopravvivenza sembra mettere il silenziatore al senso critico. E’ così?
In realtà la società israeliana non è silente, c’è un gran dibattito, ci sono anche prese di posizione molto dure. E la critica interna, a parte la subitanea convergenza sulla linea del governo, è andata poi crescendo sino a coinvolgere intellettuali, stampa, politici. Che ora cominciano a chiedersi se la risposta all’attacco sia politicamente giusta e proporzionata. In questo senso, il dibattito è solo all’inizio. Io credo che si debba avere il coraggio di dire che questi atti sono crimini di guerra e che non giovano ad Israele.
Anche perché alimentano un antisemitismo più o meno strisciante che porta ad esempio a identificare gli israeliani con i nazisti o ad usare comunque quel codice di riferimento, anche nelle dichiarazioni politiche.
Ci sono due aspetti della questione: da un lato non si considera il pericolo reale in cui si trova Israele, non solo per la sua sicurezza ma per sua stessa esistenza. Dall’altro lato Israele sembra ritenere che il diritto alla difesa legittimi azioni indiscriminate.
Come ebreo italiano, che ha comunque con Israele un forte legame di elezione, è automaticamente considerato un potenziale giudice della politica israeliana. Come vive questa condizione? E’ difficile, anche lontano da Gerusalemme, fare appello alla ragione e alla capacità critica?
Sono preoccupato per ciò che sta avvenendo, anche in quanto ebreo. Per le sue ricadute sull’immagine di Israele e dell’ebraismo. Ma credo che sia molto importante per noi parlare e far capire che esistono molti punti di vista, che c’è un’articolazione. Non bisogna arrivare alla catastrofe per ragionare, per capire che l’opzione militare non è risolutiva ed è di corto respiro. L’unilateralismo è un errore, la via non è di aumentare i propri nemici, ma i propri interlocutori. La prospettiva è il multilateralismo, la speranza è che questa tragedia come quella dell’Iraq metta in crisi la politica unilaterale e rompa l’isolamento pericoloso a cui Usa e Israele si sono disastrosamente ridotti.
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