Conflitti

Indifferenti ai diritti umani

2 agosto 2006
Shirin Ebadi e Jody Williams

Noi, Premi Nobel per la Pace, assistiamo con attonita incredulità alla degenerazione dei combattimenti in Libano e Israele mentre sembra scemare l’interesse per la crisi umanitaria di Gaza. La mancanza di una leadership globale di fronte a questa violenza che colpisce centinaia di migliaia di civili è sconcertante. Il fallimento del G8 di luglio nell’affrontare quelle che non sono altro che lampanti violazioni del diritto umanitario internazionale è un segno evidente della mancanza di volontà di porre le vite civili al di sopra della politica. veti reiterati degli Stati Uniti al Consiglio di sicurezza dell’Onu, che bloccano qualsiasi sforzo di risolvere queste crisi sono, purtroppo, prevedibili. L’amministrazione Bush, sostenuta da posizioni forti del Congresso americano a supporto delle operazioni militari israeliane, non ha fatto alcunché per ridurne l’impatto sulla popolazione civile. Il recente summit di emergenza di Roma, a due settimane dall’inizio della crisi, non ha prodotto finora alcun risultato tangibile. Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele si oppongono a un immediato cessate il fuoco. Come sorprendersi di fronte al diffondersi dell’anti-americanismo in tutta la regione mediorientale, se non in tutto il mondo, quando i funzionari americani descrivono la distruzione e il caos come le inevitabili «difficoltà iniziali nella nascita di un nuovo Medio Oriente»? Di fronte alla distruzione di massa del Libano parlare di risposta «sproporzionata» di Israele al rapimento dei suoi tre soldati non è sufficiente: si tratta di una punizione collettiva delle popolazioni civili di Gaza e del Libano. Collettiva e personale al tempo stesso, come leggiamo nelle poche e-mail che riceviamo dalle colleghe che si trovano in Libano, che ci parlano di morte e distruzione. Collettiva e personale, come ci dice una studentessa dell’University of Houston che ci informa sulla situazione dei suoi parenti a Gaza. La distruzione deliberata di infrastrutture civili (strade, ponti, edifici residenziali, veicoli di soccorso, porti, e anche l’aeroporto) ha prodotto moltissime vittime civili impedendo che le popolazioni evacuassero le zone di guerra e ostacolando l’erogazione degli aiuti umanitari. Centinaia di migliaia di profughi, forse un cittadino su cinque in Libano, tentano di lasciare un paese le cui vie di uscita sono state deliberatamente annientate. Gran parte della città di Beirut è stata nuovamente ridotta a un mucchio di detriti. I sempre più numerosi attacchi di Hezbollah contro obiettivi civili in Israele sono altrettanto odiosi e si configurano come violazioni del diritto internazionale. Mentre viene accesa la fiamma della violenza nel Nord di Israele e in Libano, la crisi di Gaza prosegue, seppur sotto la cenere: l’occupazione israeliana di Gaza può anche aver cambiato forma, ma la realtà è che continua a perpetuarsi, a tutti gli effetti, nella vita quotidiana delle persone. Il premier israeliano Ehud Olmert ha dichiarato esplicitamente che i suoi soldati «opereranno, entreranno e agiranno se necessario». Man mano che si sono intensificati gli attacchi di Israele nel Nord, le sue forze armate hanno anche cominciato a distribuire dei volantini in tutta Gaza in cui si comunicava che avrebbero cominciato a bombardare le case sospettate di essere utilizzate come nascondigli per le armi. Avevano già distrutto l’unica centrale elettrica di Gaza lasciando senza acqua e con le fogne fuori servizio decine di migliaia di persone. Non riusciamo a capire come la comunità internazionale possa continuare ad assistere inerte mentre intere popolazioni vengono tenute in ostaggio in nome di quella che viene definita «auto-difesa». La comunità internazionale non dovrebbe giustificare alcun attacco deliberato contro dei civili da parte di gruppi armati, né esplicitamente né implicitamente attraverso il «non-intervento». Ogni nuovo attacco lascia dietro di sé una scia di morti e feriti. A ogni nuovo attacco c’è una vedova in più e altri orfani. Ogni nuovo attacco è una dimostrazione dell’incapacità o non volontà dei governi di esercitare il loro obbligo morale di porre fine alla violenza. Ogni nuovo attacco evidenzia il nostro fallimento collettivo come comunità nel rinunciare alla violenza come via preferenziale per risolvere problemi che riguardano tutti noi. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite deve intervenire per fermare la violenza ed evitare una escalation che potrebbe condurre a un’estensione del conflitto all’intera regione. È giunto il momento di avviare delle trattative, con una mediazione internazionale, che portino alla pace nel Medio Oriente. A tali trattative devono partecipare le organizzazioni della società civile e le donne dell’intera regione. Essendo proprio le donne e i bambini le vittime delle maggiori sofferenze durante e dopo i conflitti, si deve dare alle donne l’opportunità di avere voce in capitolo nella ricerca di una possibile soluzione alla violenza. Shirin Ebadi, avvocato iraniano, è stata insignita del Nobel per la Pace nel 2003 per la sua opera in difesa dei diritti umani.

Note: Jody Williams, professoressa americana, è stata insignita del Nobel per la Pace nel 1997 per la sua attività a favore della Campagna internazione contro le mine anti-uomo.
Copyright «The International Herald Tribune» e, per l’Italia, «Il Mattino». (Traduzione di Gabriella Rammairone)
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