Un grido dal Libano: «Il mondo non può tacere»
«Sono una libanese cristiana di 28 anni. Lavoro nella produzione, nel giornalismo e nella comunicazione. Faccio anche documentari: l'ultimo era sugli Hezbollah. Ho compiuto studi di Legge e ho un master in informazione e comunicazione, e stavo preparando una laurea specialistica in Scienze Politiche. Ora i miei progetti sono affondati. Mi sono ripresa e lavoro adesso come traduttrice e coordinatrice con i reporter della guerra del Libano. Vado con loro là dove la morte è passata, e tento, se possibile, di far loro conoscere la realtà «reale» del Libano, la sua complessità e, soprattutto, la sua differenza.... La paura non concerne solo il quotidiano, ma ancor più i giorni futuri, la parola giusta sarebbe «inquietudine». È la nebbia, è l'amarezza. Noi avevamo tante speranze... Vedevo il mondo in grande, ora non lo vedo più. ... Voi non potete sapere ciò che si trama dietro le quinte della guerra... quale odio e quale violenza promani da parte dei nostri vicini israeliani... È indescrivibile... Le mie speranze...! Ne ho ancora, e su diversi piani, specialmente quello di ricuperare il mio diritto di sperare. Mi guadagnavo da vivere facendo sognare la gente con grandi produzioni, ora la guadagno mostrando il sangue che scorre... Tutto ciò nel volgere di tre settimane... La mia speranza, adesso, qual è? Una scossa che faccia uscire il mondo dal suo coma».
Così mi scrive dal Libano del Nord, per sua fortuna, lontana, per ora, dalle zone colpite dagli attacchi israeliani. Sanaa, così si chiama, si dichiara scandalizzata dall'accusa di antisemitismo che viene mossa da un potente apparato mediatico a chi esprima condanna della politica israeliana. Io pure, aggiunge, sono «semita». Ammesso che ciò possa significare qualcosa.
Già, proprio qui è il punto su cui occorre fermarsi, e prima di tutti sono tenuti a farlo coloro che fanno parte della comunità degli uomini e donne di cultura; poi la comunità politica; e infine la gente comune, il cui cervello non sia ottuso dall'imbonimento giornalistico e dal chiacchiericcio opinionistico, nel quale tutti concordano sulla necessità della «sicurezza» di Israele, che passa davanti a tutto, sui cadaveri dei bambini libanesi - la strage di Cana, si sa, non è la prima, non sarà l'ultima -, come i tank con la stella di David.
Il punto è che è giunto il momento di dichiarare di non voler più soggiacere al ricatto della Shoah, in nome del quale si sono giustificati pulizia etnica ai danni dei palestinesi, una politica aggressiva verso tutti i vicini mediorientali, un'arroganza politica che tiene in scacco le Nazioni Unite e, troppo spesso, è solo la trasposizione delle esigenze imperiali dell'amministrazione statunitense, anche se la logica è quella dell'apprendista stregone. E oggi Israele, in mano a un ceto politico di incompetenti pericolosi, riesce a tirare la corda al suo alleato-padrone: Condoleeza Rice appare più ragionevole dei governanti israeliani, ormai irretiti da una logica di terrore che traduce impotenza. Che cosa dobbiamo ancora aspettare per fermare questa aggressione devastante, inaccettabile, crudele? Che cosa la famosa «comunità internazionale», deve ancora subire da parte di Washington e dei suoi alleati satelliti, a cominciare dalla Gran Bretagna? Quando il mondo si ridesterà dal suo coma, insomma?
Non lo so, e non sono in grado fare quasi nulla in tal senso, ma non posso tacere. Non accetto più il ricatto da parte di una minoranza di arroganti che pretende di impartire lezioni, combinando uno scorretto uso della tragedia della storia con un disinvolto ricorso alla violenza, in spregio di ogni legalità internazionale. Perché l'atomica iraniana (che non esiste) sarebbe «cattiva» e quella israeliana (che esiste, contro una precisa risoluzione dell'Onu) «buona»? Perché l'Europa ha accettato le pressioni israelo-statunitensi per imporre sanzioni a quel moncherino di stato palestinese in nuce che sono i Territori? Forse perché in libere elezioni ha vinto Hamas? La democrazia va bene soltanto quando porta al potere quelli che piacciono a noi? Perché cristiani ortodossi, copti, cattolici, islamici sunniti e sciiti debbono subire l'annessione unilaterale di Gerusalemme? Perché accettare che un'antichissima città, a tutti sacra, culla di tante civiltà e fedi, sia dichiarata «capitale unica, eterna e indivisibile» dello stato di Israele? Perché dobbiamo chinare la testa davanti a un'opera diabolica che fa impallidire lo spettro del Muro di Berlino, l'altro Muro, quello edificato nei Territori? Perché i palestinesi debbono accettare di essere cittadini dimidiati, vedere strangolata la loro economia, bloccati i loro traffici, spezzate le loro famiglie, da check-points invasivi, in mano a soldati aggressivi? Perché non vogliamo vedere che le vittime di una delle più mostruose tragedie della storia - il campo di sterminio nazista, e la fabbrica di morte che esso ha «scientificamente» rappresentato - si stanno trasformando in carnefici? Auschwitz non deve essere banalizzata e strumentalizzata per giustificare stragi, aggressioni, pulizie etniche, muri, violenze, illegalità: atti terribili, a cui nella nostra passiva accettazione della quotidianità, ci siamo abituati.
Ma come sottrarsi all'infamante accusa? «Antisemita!». Ebbene, credo che non si debba avere paura di quest'ingiuria. Non dobbiamo: siamo in tanti ad aver dedicato energie, lezioni, articoli, saggi, interi volumi a combattere ogni forma di razzismo, e in specie il moderno antisemitismo politico che dalla Francia e dalla Germania del tardo Ottocento conduce a Hitler e Mussolini? Per la stessa ragione per cui un intellettuale libero, che si sia schierato contro le «nuove guerre», dal Golfo in avanti, non deve preoccuparsi di essere additato come fiancheggiatore dei «terroristi», se scrive che quella in Iraq è una guerra assurda, combattuta per meri interessi di cricche affaristiche, e che produce infinitamente più danni, dolore e morte di quanti si dichiarava di voler impedire. Per la medesima ragione per cui abbiamo abbiamo parenti, amici, fidanzate, coniugi ebrei, maghrebini, iraniani, nigeriani, viaggiamo in quei paesi, leggiamo la loro letteratura, studiamo la loro storia... L'intellettuale è cittadino del mondo, ossia della ragione, strumento per arrivare alla verità, insieme a tutti coloro che si riconoscono sotto le stesse bandiere, che non sono le bandiere dell'appartenenza e dello schieramento, ma quelle dell'analisi e della comprensione. Non lasciamo cadere nel vuoto il grido di dolore di Sanaa. La quale dichiara di sentirsi, lei e tutti gli abitanti della Terra dei cedri, null'altro che «zanzare»: di cui non si preoccupano i carri armati israeliani, nel loro fatale incedere; né ci preoccupiamo noi, che leggiamo i giornali, distrattamente, o gettiamo un orecchio alla radio, o un occhio alla televisione, con i messaggi di morte che ne giungono ora dopo ora. Eppure, una piccola, pungente zanzara può ridestarci dal letargo. Svegliamoci, dunque! E gridiamo la nostra indignazione: forse spiacerà a tanti, ma potrà aprire una breccia nel conformismo, e dare un aiuto a chi alla verità vuole davvero avvicinarsi.
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