Da un Paese in frantumi
Il viaggio e' stato lungo, sensazione amplificata dalla voglia di arrivare.
Sono finalmente in Libano, ho passato la frontiera con la Siria a Nord, a
el-Aabboudiye.
A Baramke, la stazione dei taxi di Damasco, l'area di quelli diretti a
Beirut era incredibilmente desolata. Poche auto, ancora meno viaggiatori.
Si discute un po' sul prezzo, ma soprattutto sul tragitto. Qualcuno
vorrebbe portarmi al confine vicino Batroune, dove in Libano la strada e'
stata bombardata e sembra ci sia un cratere che la divide in due. Da la'
si prosegue a piedi, passando la dogana e trovando un mezzo dall'altro
lato. Vorrebbe dire attraversare la valle della Bekaa, dove ha piovuto
metallo anche ieri.
L'idea non mi piace, cerco un'altra soluzione e sono gia in auto. E' una
grande macchina americana, gialla e singhiozzante, la divido con un
siriano che rientra a Beirut dove ha lasciato la famiglia e le macerie
della sua copisteria ad al-Ghobeiri.
Alla dogana non fanno problemi e l'attrezzatura passa senza neanche essere
controllata. Di solito non e' cosi', ero preparato al peggio ma i
poliziotti oggi sono particolarmente accoglienti: quando notano i numerosi
visti libanesi sul passaporto mi trattano da amico. Effetti della guerra,
forse, del bisogno di sentirsi meno isolati.
Proseguiamo per appena qualche chilometro e troviamo un'interruzione.
L'autista esclama, senza stupirsene troppo ...solo ieri... e la frase
rimane sospesa, assorbita dalla polvere della strada di campagna che
imbocchiamo per aggirare l'ostacolo.
L'ostacolo e' un ponte abbattuto. La strada sterratta diventa un viottolo,
ci passiamo appena, porta ad alcune case e dovrebbe sbucare da qualche
parte. La gente del luogo dice di proseguire.
Rientriamo sulla strada principale che e' comunque una secondaria, passa
poco e siamo costretti a deviare ancora.
Pietre e asfalto misto a terra, un grande buco e alcuni uomini che cercano
di rimuovere i detriti, e' una pompa di benzina in frantumi.
Ancora avanti, su strade bianche, e il secondo benzinaio bombardato non si
lascia attendere. E' difficile credere che qui si nascondessero arsenali
della resistenza. Il cemento e' spezzato su se stesso, gli adulti intenti
al ripristino e i bambini noncuranti giocano a palla.
Siamo ormai sulla litoranea, nonostante tutto c'e' l'odore del mare e
questa constatazione mi sorprende.
Proseguiamo ancora, un'altra bomba e un'altra deviazione. In questa zona
deve essere stato divertente il tiro al bersaglio, con l'abbondanza di
piccoli ponti sulle varie diramazioni del delta del Nahr el-Estouene. A
bordo della strada la carcassa bruciata e accartocciata di un camion,
scheletro di se stesso.
Tripoli e ancora piu' a sud, ormai la strada prosegue tranquilla e
l'autista spinge su clacson e accelleratore per raggiungere Beirut e
cercare di ripartire prima che sia buio.
Sono al campo di Mar Elias, entrando vado dritto alla bottega di Abu
Mohammed che senza proferire parole mi prende tra le braccia e mi stringe
forte. Alan w as-alan, benvenuto amico mio e bastano queste poche parole a
ricordarmi il perchÈ del mio viaggio.
Ci sono tutti nel piccolo negozio, col naso rivolto alla piccola
televisione sul frigorifero sintonizzata su al-Jazeera. La novita' e'
quella di ieri, dell'accordo preso per l'interruzione delle ostilita'.
Piccolo particolare il fatto che ad Israele siano stati concessi gli
ultimi giorni per finire il lavoro.
Il caffe' arriva puntuale, e tra i commenti del telegiornale e i
tentativi di tradurmene il significato ci riabituaiamo alla reciproca
presenza .
Al campo la situazione e' peggiorata, maffi karaba dice Umm Mohammed,
l'elettricita' manca sempre piu' spesso e l'acqua a volte non riesce
nemmeno a riempire le taniche.
Passa la notte, sono stanco ma quasi non riesco a dormire. Finalmente ho
rivisto Abu Maher e dopo 8 mesi Alaa, che e' rientrato dal Turkamnistan
dove si era trasferito a lavorare. Ho sentito il suono delle bombe, e'
stata la prima volta. Un boato sordo e un fragore che ha scosso le mura.
Sono stato al campo di rifugiati allestito nel giardino di Sanayeh.
Moltissima gente, con le tende e i piu' fortunati con i furgoni, sembra
una delle tante immagini di archivio della Nakba.
Invece e' qui e ora, non e' il 1948 ne' tantomeno la Palestina.
Raggiungo al-Ghobeiri e Haret Hreik, e' peggio di quello che immaginavo, o
forse e' solo tridimensionale. La calma apparente mette inquietudine.
Arrivo al ponte dell'aeroporto, nonostante sia stato abbattuto lo sguardo
cerca ancora Samir, il mio amico siriano che alla sua ombra aspettava il
lavoro a giornata.
Samir non c'e'. Il silenzio e' rotto dai nostri passi, che acciaccano
vetro, macerie e suppellettili di ogni tipo che sono state sputate fuori
dagli edifici. E' un luogo semi-deserto, irreale, uniche presenze umane
sono i ragazzi che formano i blocchi degli Hezbollah all'ingresso delle
vie laterali. Non fanno entrare, se non a volte le persone che abitavano
nella zona, e controllano che non si facciano riprese. Hanno paura delle
spie e per questo serve un permesso che cerchero' di procurarmi quanto
prima. Mentre ci allontaniamo un rumore giunge da lontano, strascicato e
cadenzato si avvicina e acquista la forma di un vecchio. E' seduto sulla
sua sedia a rotelle, la muove con un meccanismo a mano trascinando tra le
macerie una cassetta di plastica con poche cose dentro. Ci passa davanti,
di spalle se ne va tra gli edifici distrutti, il suono della sua angoscia
con lui.
Questa e' l'ultima notte di guerra, almeno cosi' dicono, ed io decido di
dormire da Alaa al Gaza Hospital perche' e' opinione comune che gli
israeliani si sfogheranno. Se bombardassero ancora dal nono piano avrei
el-Dahie davanti a me e potrei fare le riprese. Purtroppo e' quello che
succede, con la sera inizia il concerto. Una bomba, il fragore che fa
tremare ed una nuvola di fumo che si innalza da Haret Hreik. Due, tre e
poi quattro. Formano una linea tra loro, hanno deciso di completare la
distruzione delle case ormai vuote, prima che la popolazione possa
rientrarci. Un'altra ancora, ma di questa vedo solo il fumo. Assolutamente
muta, scoppiando non ha emesso alcun suono. Me ne avevano parlato, mi
vengono i brividi a pensare che tipo di ordigno possa essere. Ancora
un'altra e poi ancora, fino a perdere il conto.
Il giorno dopo scopro che sono state 13, questa e' stata l'ultima notte a
Beirut prima della tregua. Poi e' finalmente giorno, rimane il fumo che
continua a salire dai quartieri sud-occidentali nella prima luce dell'alba
e la speranza che sia finita veramente.
Al lume di candela aggiungo le ultime parole, rapide vorrei disegnassero
un'istantanea sulle dinamiche di solidarieta' di cui la societa' civile
libanese e palestinese si e' fatta promotrice.
Una scuola dell'U.N.R.W.A. a Chatila, con sette famiglie sciite libanesi
scappate del sud. Profughi ospiti in un campo profughi, tanto per
ricordare cosa vuol dire portare memoria della propria storia.
Marco Pasquini
Autoproduzioni Abbasso il GradoZero
abbassoilgradozero@gmail.com
Questo racconto fa parte del diario di lavorazione di un progetto di
documentazione a lungo termine sul Gaza Hospital a Beirut, se non volete
piu' riceverlo vi prego di comunicarlo e scusare il disturbo.
I dvd di 2 documentari, dai titoli "Incontri" e "Saloon al-Fidah", girati
negli stessi luoghi e parte del piu' esteso progetto, sono in vendita ad
euro 15 a copia per auto-finanziamento.
Sociale.network