Mina Kosovo, conto alla rovescia
Dieci giorni fa le prime elezioni politiche del Montenegro indipendente, e a Podgorica si parlava soprattutto di Kosovo, vicino imbarazzante fra le scomode Bosnia e Albania. In quegli stessi giorni a Belgrado, il Parlamento della Serbia stava scrivendo sulla nuova carta costituzionale del suo legame indissolubile col Kosovo: boia chi molla, per non perdere consenso ed elezioni. Alla vigilia delle politiche del primo ottobre in Bosnia, a Sarajevo si parla soltanto di Kosovo, nel timore di eventuali scelte di secessione a Banja Luka o a Mostar. Venerdì a New York, il Consiglio di sicurezza dell'Onu aveva in agenda la relazione del finlandese Martti Ahtisaari sul futuro status del Kosovo.
Il Kosovo come il pallino impazzito nella carambola dei Balcani iniziata 15 anni fa con la disgregazione della vecchia Jugoslavia. Partita folle in cui anche le boccette con cui la diplomazia internazionale credeva di aver segnato qualche punto di stabilità, rischiano di ritornare tutte assieme sul tappeto, con giochi di sponda micidiali.
E' chiamata pudicamente «decisione sullo Status finale del Kosovo», ma tutti intendono i tempi e i modi della sua indipendenza. Si mette in piedi un baraccone diplomatico planetario per portare «serbi e albanesi alla trattativa diretta sul futuro del Kosovo», ma tutti sanno che è soltanto il modo per far digerire alla Serbia la perdita del Kosovo già decisa da altri. Gioco furbesco delle tre carte per una diplomazia internazionale da magheggio, con la formuletta di «indipendenza senza sovranità» che vale quanto «abra-cadabra».
Il vuoto delle parole che coincide con quello delle idee. Per i Balcani, la sola proposta in campo è quella dell'accesso nell'Unione europea. Con due quesiti senza risposta. 1. L'Unione europea, per com'è oggi (vedi Francia) e per come si sta configurando, è intenzionata o in ogni modo in grado di assorbire al suo interno le contraddizioni, le crisi e le vecchie lacerazioni dei Balcani? 2. Dopo l'esperienza di Cipro con la forzatura dell'accesso concessa a una sola delle sue parti etniche, i problemi di convivenza si sono attenuati o si sono aggravati?
La politica balcanica dei «due pesi e due misure» presenta ora il conto. Soluzioni diverse adottate per Bosnia e Kosovo, la prima «jugoslavizzata» a forza - tenuta insieme a tutti i costi - con gli accordi di Dayton, mentre per il Kosovo il tabù dell'intangibilità dei vecchi confini jugoslavi è carta straccia da tempo. Due pesi e due misure anche nella definizione delle responsabilità nelle tragedie balcaniche, e nei conti che in nome di una storia tutt'ancora da scrivere, qualcuno vorrebbe far pagare in contanti e senza dilazioni a una sola parte.
La mediazione che non media
L'ex presidente finlandese Ahtisaari chiamato a fare da mediatore per conto delle Nazioni unite nel pasticcio Kosovo, è al centro da tempo di molte critiche non soltanto serbe. L'attribuzione di una colpa collettiva del popolo serbo per quanto commesso da Milosevic, è soltanto il monumento finale a quell'improntitudine. L'essere serbi come l'essere stati tedeschi sotto il nazismo. Fuori misura nella dimensione delle tragedie e fuori luogo per l'esponente di un popolo (visto che si parla di responsabilità collettive) che ha avuto la possibilità di conoscere la democrazia dopo essere stato trascinato alla collaborazione col nazismo vero. Memoria corta anche per le pur labili promesse della diplomazia, proprio da parte di chi nel 1999, alla fine dei bombardamenti Nato, ottenne da Belgrado l'atto di resa di Kumanovo dietro la solenne garanzia di un Kosovo per sempre parte della Serbia.
Difficile a questo punto cercare di contrastare il vizio serbo del vittimismo storico, quando anche il più moderato e disponibile esponente politico di Belgrado ha la possibilità di contestare l'essenza stessa della trattativa internazionale sul Kosovo. «Dalla Serbia si è sempre e soltanto voluto un atto di rinuncia sul Kosovo». Volendo guardare con onestà i fatti, è proprio questo il germe che ha avvelenato i sei anni d'inefficace quanto costosa presenza internazionale in Kosovo. Lo sapeva bene la parte albanese, che quella prevenzione a suo favore ha cavalcato, lo sapeva la parte serba la cui classe dirigente non sembra ancora oggi capace di uscire dall'infanzia politica del ringhio o del lamento.
Che possa essere il Consiglio di Sicurezza dell'Onu a concedere l'indipendenza al Kosovo albanese, è esercizio di diritto internazionale audace. Mille quesiti senza risposta possibile. Quali i criteri per giungere alla ratifica di una secessione? Quali gli elementi necessari per chiederla? Quali i criteri universali a cui attenersi nell'esaminarla. Partita politica assurda, in cui non soltanto mancano regole e arbitro, ma addirittura le squadre ammesse al campionato.
L'Onu, la Russia e Putin
Follia giuridica sotto forma di bomba innescata. Il leader russo Vladimir Putin minaccia il veto in nome dei diritti della Serbia, ma pensa alla Cecenia, all'Ossezia e a tutto il mosaico islamico post-sovietico a sud dell'impero. L'Europa piccina pensa alla Serbo-Bosnia, all'Erzegovina, alla Macedonia, per non trovarsi paura allungando lo sguardo in casa sua, verso il Bramante, o verso i paesi Baschi o il Galles, sino ad arrivare alla presunta Padania.
Cosa accadrà entro la fine dell'anno, scadenza fissata da non si sa chi per la soluzione del pasticcio Kosovo? Un'altra bella e mediatissima risoluzione Onu con cui si riaffermerà il diritto all'autodeterminazione dei popoli e il contemporaneo obbligo degli «auto determinanti» alla tutela dei diritti umani e di tutte le minoranze. Esattamente ciò che varrebbe già oggi. Salvo dare a Pristina la possibilità di dichiarare, il giorno dopo, la sua indipendenza da Belgrado. Se poi, le minoranze interne al Kosovo non si sentiranno tutelate e da Decani, Giacovica o Kosovska Mitrovica, prenderanno in migliaia la Ibarska magistrala verso la Serbia, non sarà certo colpa né dell'Onu, né dell'Unione europea.
Ci sarà ovviamente il gran rifiuto di Belgrado a quella secessione, ma chi potrà, fra i paesi del blocco Nato, non riconoscere il Kosovo indipendente, dopo averlo creato, di fatto, con i bombardamenti del 1999?
Kosovo senza Standard
Che la dirigenza albanese del Kosovo si sia guadagnata l'indipendenza sul campo, è un fatto. Ha saputo mettere su una vera e propria guerra d'indipendenza senza mai dichiararla ufficialmente. Ha vinto una guerra esclusivamente aerea senza possedere un'aviazione. Ha patteggiato il supporto militare con gli Stati Uniti e s'è trovata accanto tutto l'esercito della Nato in offerta premio. Ha restituito a Milosevic la pulizia etnica con gli interessi, senza neppure il prezzo di una cattiva immagine. Ha trasformato i suoi capi popolo prima in guerriglieri e poi in ipotetici statisti. Ha sciolto l'Uck nella Protezione civile locale, ed ha predisposto il suo nuovo esercito di stato. Ha usato l'Unione europea come un emporio, dai cui scaffali generosi continua a prendere le caramelle degli aiuti e a rifiutare il purgante delle regole.
Sbaglia chi accusa quella classe dirigente kosovara di spregiudicatezza e avventurismo. Quasi come incolpare un bambino lasciato libero in una bottega di dolci, di essersi comportato da goloso. I furbi, si sa, si fanno giganti se messi al confronto con gli imbecilli. E d'imbecillità internazionali, in Kosovo, ne abbiamo viste tante. L'ultima, quella ormai irrimediabile, della rinuncia all'imperativo di uno standard minimo di tutela dei diritti umani e delle minoranze, prima di iniziare a discutere di «Status», in pratica d'autonomia o d'indipendenza. Ora si accetta la finzione di «Standard» assieme a «Status», sapendo tutti che quell'indipendenza arriverà senza alcuna garanzia credibile di standard e di tutela per nessuno. Indipendenza senza Se e senza Ma.
La Serbia senza futuro
L'identità e l'orgoglio serbo offesi diventano a Belgrado l'alibi per molte incapacità politiche, ed il Kosovo delle origini culturali e cristiane serbe è la bandiera dietro di cui tutti sono obbligati a schierarsi. Sul Kosovo sacro alla Serbia, voto unanime del parlamento di Belgrado altrimenti lacerato fra partiti, partitini, movimenti e lobbies d'affari. La partita vera non riguarda lo stato finale del Kosovo. La recente visita del presidente serbo Tadic a Washington ha tolto i dubbi anche agli ultimi ingenui. Il Kosovo sarà indipendente e tutto albanese, perché gli Stati Uniti così vogliono, gli è stato detto. I leader serbi in corsa preelettorale vociano per il mondo (vedi Vuk Draskovic a Bari), e cercano di pararsi le spalle per sopravvivere al potere nella Serbia senza il Kosovo.
Il governo di Vojslav Kostunica galleggia precariamente fra i ricatti incrociati di orfani e avversari del fu Milosevic, nel rovello del quando convengano le elezioni politiche anticipate. Prima o dopo il Kosovo? È la domanda. Il dato di fatto è l'indipendenza del Kosovo, l'incertezza è sul come e chi potrà guadagnare voti con un'opposizione all'evento inevitabile. Reggerà Kostunica? Vinceranno i democratici di Tadic o il partito si spezzerà in due tronconi? Potranno diventare maggioranza gli ultranazionalisti xenofobi del partito Radicale?
Il dettaglio, davvero preoccupante, che gran parte della popolazione serba stia covando un legittimo rancore nei confronti del mondo per un trattamento costantemente dispari, non fa parte delle rilevazioni politiche da segnalare alle Cancellerie. Molti orfani politici a Belgrado, ma non del despota scomparso, quanto di una classe dirigente spesso ancora ibernata dai dieci anni dell'inverno politico di Milosevic. Un paese che vuole guardare avanti mentre qualcuno lo costringe con la testa girata all'indietro.
Chi tutto e chi niente
Strategie diverse, nei Balcani. L'aureo isolamento degli Stati uniti, per esempio, che fingendo di non volersene più occupare, dopo aver deciso il disegno d'insieme ed essersi presi ciò che serviva loro (le basi militari di Camp Bondsteel e Camp Monteeth), scaricano la grana e i costi sull'Europa ridotta al ruolo di salmeria planetaria.
Colpa tutta italiana invece quella di non aver saputo o voluto imporre una nostra maggiore responsabilità diretta nel governo civile del Kosovo in questi anni, lasciando ad una serie di algidi governatori europei di gran vanità o di trasparente unilateralità, la possibilità di arrivare all'oggi del «fatto compiuto». Protagonismo tedesco invece a tutto campo con gli appuntamenti prossimi della presidenza di turno Ue e del G8 del 2007, mentre sono operativi già ora Joachim Ruecker, al vertice del civile di Unmik in Kosovo, con il compatriota generale Roland Kather, al comando Kfor. Anche in Bosnia si parla tedesco con Cristian Scwarrz-Schilling come Alto commissario Onu.
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