Conflitti

Kabul allo specchio della Nato

La missione Isaf si estende all'est del paese. E la capitale rimane sospesa in un presente di guerra e di paura. Viaggio nel regno effimero di Hamid Karzai
29 settembre 2006
Emanuele Giordana (Lettera22)
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Anche Kabul è diventata una di quelle città dove l'anima resta ingabbiata. È lo spettro di quel che era fino a trentacinque anni fa, quando frotte di giovani straccioni la fecero uscire dal buco nero della storia e della geografia. Ma quell'aria vivace degli anni Settanta, le file di alberghetti lungo le strade polverose e la scoperta di una sorta di medio evo islamico che muoveva i primi passi nella modernità, è solo un ricordo sbiadito. Persino il cielo sembra più cupo oggi a Kabul e neppure il raro volo degli aquiloni, tradizione vietata dai talebani, lo ravviva. L'anima del visitatore resta prigioniera nelle stanze d'albergo, negli uffici, nelle residenze blindate prese in affitto dalla comunità internazionale e in cui, il codice della sicurezza, parola chiave in questa città, ti obbliga come in una prigione senza sbarre, ma con una chiavistello invisibile che ti nega alla strada. Ci vuole del bello e del buono per convincere Arif a una passeggiata per Cicken Street, la via dei frikkettoni diventata famosa in quella che qui ricordano come l'età dell'oro di Kabul. Ma quel fascino sottile è ovviamente scomparso. Non ci sono svizzeri coi capelli lunghi e algide ragazzotte svedesi a fumare hashish nelle caikana, dov'era di rigore infilarsi in bocca la zolletta di zucchero prima di bere il te negli universali bicchieri francesi duralex, simbolo ante litteram di una globalizzazione annunciata anche per questo paese di cavalli, pastori, guerrieri e montagne aride.
I cavalli arabi, sostituiti da quelli di frisia, sono scomparsi e con loro le ragazzotte svedesi. I guerrieri però pullulano. Almeno quando suona la libera uscita. C'è il tedesco, l'italiano, l'americano. Vengono a Cicken Street a comprare tappeti e paccottiglia da portare a casa (già allora i turchesi venivano dalla Germania). Souvenir di questa guerra che c'è ma non si vede, si combatte ma un po' si dice un po' no. Si percepisce però. La tensione è palpabile quando esci dalla porta di casa nell'unica città dove Karzai comanda davvero. Poi però, passeggiando, svanisce perché Kabul non è Bagdad anche se la sua «zona verde» sta facendo di tutto per assomigliarle.
Se i fasti della stagione hippy sono un ricordo, la nuova Kabul è invece il segno dei cambiamenti profondi che venticinque anni di guerra (se il suo inizio si vuol far coincidere con l'invasione russa del '79) hanno portato dentro questa capitale dall'intenso color ocra, come la terra su cui una città largamente estesa in orizzontale è costruita. Le statistiche sono approssimative, ma se nel '79 c'erano 900mila abitanti, adesso si contano in milioni. Elettricità a singhiozzo, niente fogne né acqua nei nuovi insediamenti spesso abusivi, ma una sorprendente ricchezza, col gusto amarognolo dell'oppio e il sapore acido del ferro dei fucili, che si è fatta strada in questa città dove i luoghi di rilievo si contavano sulle dita: il palazzo del re (oggi anche residenza di Karzai), la grande moschea, la Posta, la Banca centrale, il Kabul Hotel, oggi ribattezzato, paradossalmente, Kabul Serena. Queste nuove case di stile indefinibile sono molto simili alle loro gemelle di Peshawar o persino di Belgrado, fatte le debite proporzioni culturali e architettoniche. L'idea di fondo è che: ostento, dunque sono. L'immagine che devono rendere è che io posso, tu no. Il messaggio che trasmettono è: sono un criminale, e con ciò? I «nuovi ricchi» della guerra - quella contro i russi, tra mujaheddin, quella attuale, tutte lautamente finanziate - non mancano nemmeno qui, come ovunque dove c'è da far soldi con le armi e gli stupefacenti nel marasma di un conflitto. Altro che l'afgano nero, l'hashish profumato dei bei tempi andati. Questo è un paese dove il commercio dell'oppio si fa sotto gli occhi di tutti, con la complicità di molti parlamentari, spesso eletti più per forza che per amore. Certo ci sono eccezioni, ma corroborate da una disillusione generale in una situazione che l'ambasciatore tedesco a Kabul, davanti alla commissione esteri del suo parlamento, ha definito - dice il quotidiano Bild - sull'orlo di una catastrofe, con un governo che potrebbe perdere il controllo tra un anno, un anno e mezzo. La percezione del diplomatico dev'essere condivisa anche da altre cancellerie, pur se tutti preferiscono gettare acqua sul fuoco a cominciare dai generali, i veri padroni del campo in città. Ora più che mai, visto che la Nato ha approvato ieri l'estensione della missione Isaf a tutto l'Afghanistan, inglobandovi anche i circa 10mila soldati americani dell'ormai obsoleta «Enduring freedom». Del resto, dice la deputata Fawza Kofi, vice presidente della Camera bassa, «la baby democrazia afgana morirebbe» se la Nato se ne andasse e nemmeno lei sa quantifcare quanto tempo ci vorrà per permettere all'esercito nazionale, 35mila effettivi, di diventare adulto. Intanto questa guerra per procura, i cui frutti sono assai discutibili, è già costata migliaia di vittime civili afgane, otto militari all'Italia e, per fare un altro numero, 36 soldati e un funzionario del ministero degli Esteri del Canada. Il contingente verso cui, assieme al nostro, sembrano indirizzarsi le ultime azioni della guerriglia, benché il comando italiano di Herat abbia definito l'attentato dell'altro ieri del tutto «casuale». Ma qui di casuale non c'è più nulla. Nemmeno una passeggiata a piedi per la strada di una città che ha perso la voglia di scherzare. E si nasconde l'anima dentro un vestito troppo stretto cucito su misura dal sarto sbagliato.

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