Trame e segreti dietro l'omicidio di Anna Politkovskaja
Un centinaio sono gli articoli, le interviste e i documenti pubblicati quest’anno sul bisettimanale d’opposizione «Novaja Gazeta» dalla inviata e commentatrice Anna Politkovskaja, assassinata sabato scorso in pieno centro di Mosca e in pieno giorno.
Quei materiali che andavano a colpire bersagli pericolosi. avevano un comune denominatore: l’aspra (e anche unilaterale) denuncia del conflitto di Cecenia, delle tensioni nel Nord Caucaso e più in generale della corruzione e dell’arbitrio (proizvol) annidati “come una cancrena” tra i tutori della legge, nell’esercito, nelle istituzioni di governo, centrali e regionali.
In Cecenia la Politkovskaja aveva compiuto 40 “missioni” a partire dallo scoppio del secondo conflitto russo-ceceno, nell’agosto 1999, sfidando pericoli e minacce. Nessun giornalista vanta una simile performance. Scampata a due attentati, nel 2001 era stata vittima, proprio in Cecenia, di gravi sopraffazioni da parte di ufficiali dell’FSB.
Più volte insignita, in Russia, di prestigiosi premi giornalistici, è stata spesso ascoltata come testimone da istituzioni internazionali che indagavano sulle violazione dei diritti umani e civili in Cecenia. Ha pubblicato in Occidente alcuni libri su quella regione, tradotti anche in Italia (come Cecenia – Il disonore della Russia, edito da Fandango, Roma, nel 2003) e un viscerale pamphlet contro Putin, La Russia di Putin, edito un anno fa in Italia da Adelphi.
Nei confronti del Presidente, la Politkovskaja confessa di nutrire “un’antipatia istintiva, profonda”. Lo considera “un razzista”, “uno sbirro della polizia segreta”, “un Akakij Akakevich (il patetico ometto del Cappotto di Gogol’, P.S.) seduto sul trono di tutte le Russie”, l’affossatore della democrazia in Russia e il responsabile del conflitto ceceno con le sue atrocità. C’è da dire che mai usa un linguaggio altrettanto duro nei confronti dei terroristi ceceni.
Secondo i colleghi di “Novaja Gazeta”, l’assassinio della Politkovskaja è legato alla sua attività professionale. Proprio gli articoli di quest’anno potrebbero suggerire delle tracce. Sempre documentati, rivelano, oltre a un coraggioso e paziente lavoro condotto sul campo, un’ampia disponibilità di fonti: nelle procure, al Ministero degli interni, nell’esercito e forse nei “servizi” – l’FSB.
Su Beslan la giornalista aveva pubblicato varie inchieste e un mese fa materiali riservati del Ministero degli interni federale che rivelano confusione, reticenze, incompetenze, superficialità abissali nella gestione della crisi e nelle successive indagini. Aveva denunciato malversazioni e ruberie impunite commesse in altre repubbliche nord caucasiche (specie in Ingushetija e Dagestan) da parte di alti dirigenti e persecuzioni contro inquirenti onesti. Si era impegnata perché il caso del giovane allievo tankista Sychev, vittima delle violenze dei “nonni” nella scuola militare di Cheljabinsk (gli avevano provocato l’amputazione delle gambe e dei genitali), non venisse messo a tacere dalle autorità militari.
Tra Pietroburgo, Cecenia e Libano
Il caso più clamoroso, tuttavia, rivelato dalla Politkovskaja assieme a un suo collega in un’inchiesta apparsa nel n.74 di “Novaja Gazeta” a fine settembre, riguarda l’intervento a San Pietroburgo di un manipolo di armati del battaglione ceceno “Vostok” (Oriente), integrato nella 42a Divisione fucilieri motorizzata federale. Erano arrivati il 15 settembre scorso nella capitale baltica per dirimere una contesa, scoppiata tra due società gestite da due biznesmeny ceceni rivali. Oggetto della contesa la chiusura per bancarotta di una grossa fabbrica locale per la lavorazione della carne e la destinazione al mercato immobiliare dell’area su cui sorge. Una speculazione di alcuni milioni di dollari, cui il proprietario della fabbrica si opponeva.
L’intervento degli uomini del “Vostok” – armati di tutto punto e personalmente guidati dal suo comandante e fondatore, il generale di brigata e “eroe della Federazione Russa” Sulim Jamadaev (un suo fratello è deputato alla Duma) – si concludeva con il proprietario della fabbrica spedito all’ospedale con le ossa rotte e la firma dei documenti che sancivano la bancarotta della fabbrica.
Una squadra della militsija della capitale baltica, chiamata per arrestare gli uomini di Jamadaev, dopo averne verificato identità e accreditamenti ufficiali, si ritirava lasciando loro campo libero.
La vicenda, che ha dell’incredibile, si collega alla denuncia della Politkovskaja del regime filorusso del giovane Ramzan Kadyrov (che ha inferto colpi mortali ai separatisti e di fatto procede con rapidità alla ricostruzione del paese e al consolidamento di un certo ordine) e dei battaglioni che lo sostengono.
Secondo la Politkovskaja, essi operano nella piena illegalità. Dispongono di prigioni segrete. Rapiscono, imprigionano, torturano e fanno sparire, per sempre, gli avversari, veri o presunti, del nuovo regime. Le loro azioni e il loro stesso raggruppamento avrebbero, secondo la giornalista, motivazioni extra politiche: difendersi dall’istituto della “vendetta di sangue” tra famiglie o perseguirlo, oppure arricchirsi con esazioni, sequestri e riscatti e farsi finanziare da Mosca. Questi battaglioni hanno arruolato migliaia di ex-boeviki che hanno deposto le armi, arrendendosi a Kadyrov più che ai federali.
Putin, secondo la Politkovskaja, li ha pienamente legittimati, li finanzia e si disinteressa delle loro azioni illegali in nome della “cecenizzazione” del confitto, che consente il suo esaurimento e il ritiro dalla Cecenia delle truppe russe.
In un’intervista del 5 ottobre, due giorni prima del suo assassinio, la giornalista rivelava a Radio Svoboda di aver preparato tre articoli per il suo giornale in cui avrebbe chiamato in causa con tanto di documenti lo stesso Ramzan Kadyrov.
Ma c’è un’altra circostanza singolare: due reggimenti ceceni incorporati nella 42° Divisione, il “Vostok” di Sulim Jamadaev e il “Zapad” (“Occidente”), comandato da Said Kakiev, per decisione del ministero della Difesa russo, partecipano già alla missione ufficiale di Mosca in Libano. Pochi giorni fa sono arrivati in Libano un centinaio di loro uomini incaricati di proteggere i genieri russi che dovranno bonificare parti di coste e infrastrutture libanesi bombardate dagli israeliani. All’arrivo dei ceceni in Libano hanno dato ampia risonanza i TG russi (il più seguito dei quali, il “Vremja”, taceva domenica, al pari di Putin, sull’assassinio della Politkovskaja). Sono andate in onda interviste di soldati ceceni, in cui questi si dichiaravano fieri di partecipare, da buoni musulmani, all’opera di risanamento di un paese musulmano come la loro Cecenia.
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