Da Sarajevo a Guantanamo
Se parliamo di facciate, Sarajevo sta faticosamente uscendo dalla guerra. Le case del centro storico sono quasi tutte ridipinte e restaurate, le due Torri della capitale della Federazione croato-bosniaca, ridotte un colabrodo e annerite dalle cannonate e dagli incendi dellaa guerra, svettano ora rilucenti di vetrate nuovissime che riflettono in lontananza le sempre disastrate case della periferia. Ma altre ombre e i fantasmi della guerra restano ben presenti e duri a morire. Non parliamo dei risultati delle recenti elezioni, vinte, si dice, dai «moderati», in realtà sull'orlo del precipizio visto che la parte musulmana chiede la fine della Repubblica serba di Bosnia uscita da Dayton, quella serba è pronta per ritorsione all'indipendenza e l'Hdz, storico rappresentante dei croati, è in frantumi surclassato dai «socialdemocratici croati» che in realtà hanno avuto i voti dei musulmani. Un bel caos istituzionale. Sul quale si affacciano nuovi movimenti come i giovani musulmani, serbi e croati di «Tutto completo» che prima del voto hanno sfilato con la loro «rivoluzione colorata» contro la corruzione imbrattando di vernice il portone della presidenza bosniaca «falsamente tripartita». Insieme ai ritrovamenti dell'ultim'ora di nuove fosse comuni, emergono anche pericolose iniziative che riaprono davvero le non rimarginate ferite di guerra. Parliamo della protesta degli ex mujaheddin e dei loro familiari per evitare l'espulsione.
Il ruolo di IzetbegovicNel 1992-1993 entrarono in Bosnia Erzegovina circa tremila combattenti islamici - altre fonti parlano di seimila - per soccorrere l'esercito della Bosnia musulmana del presidente Alja Izetbegovic, grazie al ruolo di intermediazione dell'Arabia saudita che divenne lo sponsor ufficiale di queste partenze, dall'Algeria al Libano, dall'Afghanistan al Pakistan, ma soprattutto grazie al permesso dell'Amministrazione Usa guidata allora da Bill Clinton che autorizzò la Cia a garantire gli «arrivi». I circa tremila mujaheddin così, ipergarantiti dai paesi musulmani e dagli Stati uniti, ricevettero passaporto bosniaco, combatterono e insieme commisero stragi efferate a danno dei civili dell'altra parte - serbi e croati - e terrorizzarono spesso anche la stessa popolazione musulmana di Bosnia abituata a costumi ben diversi da quelli integralisti, tanto da provocare - accadde a Travnik - sollevamenti popolari di chi malsopportava le proibizioni contro le donne. Molti di loro erano veterani dell'Afghanistan e, probabilmente, fra loro in un primo tempo c'era lo stesso Osama bin Laden, ma le autorità di Sarajevo lo hanno più volte smentito. Dopo gli accordi di Dayton, duemila di loro sempre con lasciapassare della Cia lasciarono la Bosnia per tornare a casa o in altri fronti di guerra. Un migliaio decise di restare. Ma dopo l'attentato sventato durante la visita del papa a Sarajevo nell'ottobre 1996 e soprattutto dopo l'11 settembre 2001, i mujaheddin fino a quel momento considerati eroi e beniamini della guerra contro i serbi, sono diventati colpevoli di quasi tutti i crimini commessi dall'esercito regolare musulmano e dalle milizie alle dipendenze dirette dell'ex presidente Izetbegovic.
«Basta ingiustizie»
Ora da molte i rappresentanti e i familiari di circa 600 di loro sono in piazza da molte settimane, spesso davanti alla sede del parlamento di Sarajevo dove sostano da un mese le tende dei contadini bosniaci che accusano il governo di favorire le importazioni agricole europee a danno dei contadini locali. Gli ex combattenti mujaheddin si raccolgono nell'organizzazioni di veterani «Ensarije». Protestano contro la richiesta dell'Unione europea che pone come condizione per l'ingresso in Europa della Bosnia la revisione di tutte le cittadinanze concesse al momento della guerra, e soprattutto contro una commissione governativa che ne ha già revocate 150 con espulsione immediata degli interessati e che sta valutando i metodi utilizzati per ottenerle. «Non è vero che abbiamo pagato mille marchi e che abbiamo corrotto qualcuno per averle - sostiene Abu Hamza, portavoce dell'organismo dei veterani - le cittadinanze le abbiamo avute regolarmente dal governo dell'epoca, chiedete a loro. Ora noi ricorreremo alla Corte di Strasburgo dei diritti umani e la nostra causa è difesa negli Stati uniti da un grande studio legale».
I legali americani denuncianoAbu Hamza non dice tutta la verità, ma l'entrata in scena di avvocati americani è reale. Un gruppo di legali americani ha infatti fatto causa alla Bosnia Erzegovina alla Corte di Strasburgo per la violazione dei diritti di sei algerini consegnati dalle autorità di Sarajevo a Washington e in seguito rinchiusi nel carcere di Guantanamo. I sei, Bensayah Belkacem, Boudella el Haji, Hakmar Boumedienne, Sabir mahfouz Lahmar, Mustafa Ait Idr e Mohammed Nechle, erano arrivati in Bosnia Erzegovina per combattere a fianco dei confratelli musulmani nella guerra interetnica del 1992-1995, grazie alla triangolazione tra Usa-Arabia saudita e Iran che garantì l'arrivo di combattenti e armi - il Washington Post parlò di una nave intera di armi arrivata dai porti Usa alla Croazia formalmente alleata dei musulmani. I sei, come altri 600 mujaheddin, sono rimasti in Bosnia dopo aver sposato donne del posto regolarizzando così la loro cittadinanza, gestendo spesso centri islamici, campi di addestramento e indrottinamento. Secondo l'intelligence americana erano legati alla rete di Al Qaeda e per questo sono stati arrestati in Bosnia alla fine del 2001 dopo l'intercettazione di telefonate dove veniva pianificato un attentato all'ambasciata Usa di Sarajevo. Tutti in seguito vennero rilasciati per mancanza di prove, ma le autorità di Sarajevo li hanno lo stesso consegnati nelle mani dell'intelligence Usa che li ha portati subito a Guantanamo con «trasferimento illegale», «senza prove» e in virtù degli «speciali legami» che intercorrono tra Sarajevo e Washington, accusa da Boston il noto avvocato Wilmer Hale.
Le autorità musulmane di Sarajevo ponziopilatescamente ora fanno orecchie da mercante su quei «lasciapassare» del '92-'93: vorrebbe dire mettere in discussione il padre della patria Alja Izetbegovic. Rincarando la dose. In una intervista al quotidiano Nezavisne novine un portavoce del ministero degli interni ha denunciato che nella lista dell'Onu dei terroristi affiliati ad Al Qaeda ci sono almeno tre stranieri con cittadinanza bosniaca: sono tre tunisini, Mahrez ben Mahmud ben Shashi al Amandani, Shafik ben Mohamed al Ajadi e Halil Ben Ahmed, tutti con «residenza a Sarajevo», ma che ora, rassicurava il funzionario, hanno fatto perdere le loro tracce. Se catturati, la loro destinazione è una sola: Guantanamo.
«Stop nepravdi» «Basta ingiustizie», gridano gli striscionbi e i cartelli portati dai bambini che in arabo ripetono «non vogliamo consegnarvi i nostri padri», «vogliamo i nostri diritti» gridano i familiari dei mujaheddin e tante donne con il velo, molte coperte completamente dal niqab nero, che ricordano come molti di loro erano in Bosnia anche prima della guerra interetnica.
La motosega di Vozuci
Ha fatto molto scalpore la polemica sollevata dal coraggioso settimanale Dani che in un servizio sulla protesta dei veterani, faceva parlare in piena campagna elettorale Alja Redzic, candidato dell'Sda (storico partito musulmano di Izetbegovic) per il cantone di Zenica e Doboj. Redzic ha accusato Dani di avere enfatizzato quel che è accaduto nel 1993 a Vozuci, località bosniaca dove le milizie musulmane regolari e i mujaheddin si macchiarono di stragi contro civili e militari serbi prigionieri. «Io c'ero a Vozuci - ha dichiarato il politico che difende la protesta dei veterani - e dico che sono tutte menzogne, non vi permetto di parlare dei miei fratelli come dei criminali». Nel resoconto Dani conclude chiedendosi come deve essere definito, se non crimine, quello che - confermato da testimoni, anche al Tribunale dell'Aja - è accaduto a Vozuci, dove tra le altre atrocità, i soldati serbi prigionieri venivano appesi con corde alle porte di uno stadio di calcio e squartati con motoseghe davanti agli occhi delle scolaresche locali.
Sorprende che pochi s'interroghino sull'ennesimo paradosso balcanico. Prima venivano trasportati «legalmente» dalla Cia a Sarajevo per combattere per gli alleati di turno degli Usa come già in Afghanistan, adesso, sempre con voli della Cia, raggiungono «illegalmente» Guantanamo. Chi è il criminale?
Per Kabul la Nato pensa a Belgrado e Podgorica
Gli Stati uniti, non contenti di avere prima portato i mujaheddin a combattere in Bosnia e ora di trasferirli a Guantanamo come terroristi di Al Qaeda, magari passando per Camp Bondsteel nel protettorato del Kosovo, cercano ora un reingaggio militare dei serbi. Per confermarli nel ruolo storico, da loro sempre rivendicato, di guardiani dell'Occidente contro le «invasioni» da Oriente. E' tutto confermato, da atti parlamentari e solide fonti giornalistiche. Non basta che nel 2003, di fronte alle difficoltà del «fronte dei volenterosi» di portare truppe nell'avventura della guerra all'Iraq, chiesero a Belgrado di discutere il possibile invio di reparti serbi - è agli atti del parlamento della Serbia. Ora il presidente serbo Boris Tadic - mentre si confermano insieme, strabicamente, buoni rapporti con la Nato e dure pressioni perché i serbi accettino l'indipendenza del Kosovo - nel suo recente viaggio negli Usa ha avuto modo di ratificare un accordo militare con Washington. Difficile immaginare, se resta la pressione sul «Kosovo indipendente» ogni coinvolgimento serbo in guerre in corso. Anche se il «Financial Times» ha raccontato a settembre che la Nato, che pure solo 7 anni fa ha bombardato la Serbia, ha chiesto anche a Belgrado l'invio di truppe nella guerra afghana. Così la diplomazia Usa aggira l'ostacolo. E il ministro della difesa Donald Rumsfeld è corso a Podgorica da Milo Djukanovic a congratularsii per l'indipendenza dalla Serbia e a proporre l'utilizzo del nuovo esercito del Montenegro (già parte di quello serbo-montegrino) nelle missioni della Nato all'estero. A cominciare dall'Afghanistan dove, anche da Est, cominciano pesanti defezioni.
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