Torce umane per i soprusi
La caposala del reparto chirurgico scuote la testa: «E' la tensione che le fa diventare pazze. Le ristrettezze economiche, le angherie dei mariti e delle suocere, la pressione psicologica: alla fine non ce la fanno più». Mahdiya, da ben 18 anni infermiera all'ospedale pubblico Esteqlal, nella capitale afghana, è impressionata dalla quantità di donne che vede ricoverare per ustioni. Si danno fuoco per disperazione, spiega: «Arrivano con il 95% di ustioni, poche si salvano e se sopravvivono restano conciate male, sfigurate. E saranno pure rimproverate per aver portato vergogna sulla famiglia». Dal foulard, bianco come il camice, sporgono grandi ciocche dai riflessi di henné: «Cosa si può fare per cambiare questa situazione? Glielo chiedo. In città vedo cambiare qualcosa. Le bambine ora vanno a scuola, e quelle che non avevano potuto studiare al tempo dei Taleban ora cercano di recuperare: mia figlia, 8 anni, ha compagne di scuola già grandi e con figli. Le ragazze sono tornate ad andare all'università, molte fanno lavoro sociale. Ma trovare lavoro è ancora difficile. In città le cose cominciano a cambiare, grazie all'istruzione: ma nei villaggi le donne non hanno nessuna libertà. Bambine di 9 o 10 anni vengono date in spose a uomini di 50 o 60. La violenza in famiglia è comune. Tutto è contro di loro. E quando la pressione è insopportabile si danno fuoco».
La settimana scorsa a Kabul attiviste per i diritti umani e delle donne, da tutto l'Afghanistan e alcuni altri paesi dell'Asia meridionale, si sono riunite per discutere di «self-immolation»: il suicidio dandosi fuoco. Le organizzazioni per i diritti umani dicono che succede sempre più spesso. Sono solo stime, o indagini parziali: a Kabul sono stati registrati 36 casi quest'anno e pare che siano il doppio dell'anno scorso, ma il record spetta alla provincia di Herat. A quella conferenza ha preso la parola una ragazza di 16 anni, sopravvissuta al suo tentativo di suicidio: il marito 25 anni più grande di lei e tossicodipendente la picchiava regolarmente, ogni notte, soprattutto quando era in astinenza, ha spiegato: ma a chi si rivolge una donna, quando è circondata da parenti e vicini convinti che sia una vergogna ribellarsi? La polizia stessa è spesso fonte di violenza, il sistema giudiziario è guardato con sfiducia - lento, spesso corrotto. La shura locale, o «consiglio degli anziani», resta la forma di giustizia più comune in Afghanistan: e gli «anziani», che spesso non conoscono le leggi e neppure la shari'a (la legge di ispirazione coranica), in caso di questioni familiari favoriscono gli uomini. Nelle carceri femminili sono detenute donne (con i loro bambini) accusate di «reati» che spesso non sono neppure nel codice penale, spesso accusate di aver disonorato la famiglia: ma sono le fortunate, rispetto a quante vengono uccise per motivi di «onore» senza che nessun tribunale le protegga.
Ha ragione la caposala dell'ospedale Esteqlal: quelle ragazze ustionate rivelano che le donne afghane restano la parte più vulnerabile di una società tradizionalista e maschile. Certo, molto è cambiato dalla fine del regime dei Taleban: le ragazze all'università (circa un terzo degli iscritti), e le donne per strada, al mercato (ai tempi dei Taleban era quasi impossibile perfino andare a comprare il pane, nonostante il burqa) e poi quelle che lavorano negli uffici, le insegnanti, le deputate, le donne che ricoprono cariche pubbliche, le attiviste di organizzazioni non governative. «Il cambiamento c'è, è impossibile negarlo», dice una militante di Rawa, L'Associazione rivoluzionaria delle donne dell'Afghanistan, la più antica organizzazione sociale e politica di donne afghane (chiamiamola Leyla: Rawa, che dal '77 si batte per i diritti delle donne e per un'idea laica di democrazia, resta clandestina). «Ma la violenza contro le donne non è finita. Anzi, è tornata a dilagare: picchiate dagli uomini della famiglia, rapite dal signore della guerra di turno, stuprate, uccise».
Le donne sono oppresse da una cultura dominata dal concetto di onore, fa notare la deputata Shukria Barakzai, una delle poche elette indipendenti: «La violenza domestica è parte della nostra storia. Prima però non se ne parlava, era considerato normale. Oggi se ne parla, e le donne hanno cominciato a non considerare affatto normale essere picchiate. E' un primo passo, molti ne restano da compiere».
A Herat molte si chiedono perché proprio la loro provincia debba registrare il record delle «auto-immolazioni». Maryam gestisce una «casa protetta» in cui trovano asilo donne vulnerabili, e dice che è la cultura, ancora più dell'islam, a opprimere la parte femminile della società: le donne sono vittima di interpretazioni sbagliate e arbitrarie della stessa legge islamica, dice. La casa protetta è un progetto di «Voice of Women», voce delle donne, una delle numerose ong femminili nate in Afghanistan dopo il 2001: fa un po' di lavoro sociale, formazione professionale, counseling (sostegno e assistenza legale). Chi sono le ospiti della casa protetta? Per lo più giovani donne, anche se la più piccola ha 14 anni e la maggiore è cinquantenne. Donne che scappano dal matrimonio forzato, ragazze che erano state date in spose da bambine - magari da un padre impoverito - e in attesa che il matrimonio fosse consumato sono cresciute facendo le sguattere nella casa dei suoceri, tra angherie e percosse. «Poi, quando crescono, tentano di sottrarsi: ma non hanno altra possibilità che scappare», spiega Maryam. Il suicidio è la fuga estrema. «Una volta non era comune darsi fuoco, in Afghanistan, mentre era una pratica esistente in Iran», dove milioni di afghani sono andati negli ultimi vent'anni come profughi, a ondate, spinti dalla guerra. «Le cose però cominciano a cambiare», dice Maryam: «Ora succede più spesso che una donna si rivolga al tribunale per chiedere il divorzio. Il problema è che le nostre leggi riconoscono diritti alle donne, ma non sono applicate dai giudici. La mentalità comune è che tutti i diritti sono dell'uomo».
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