Conflitti

Un giorno in più: Iraq batte guerra mondiale

Gli Usa combattono a Baghdad da 1.348 giorni, il secondo conflitto mondiale ne durò «solo» 1.347. Ma è l'unica analogia, in Medio oriente Bush affonda sempre più nel fallimento. E una cosa è certa: oggi alla Casa bianca c'è il peggior gruppo di incompetenti a avere mai detenuto il potere a Washington dal '45
26 novembre 2006
Gabriel Kolko (storico Usa, autore de «Il libro nero della guerra», edito da Fazi.)
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

In Iraq il governo americano sta assistendo al fallimento di tutta la sua politica sul Medio Oriente, un progetto ambizioso verso il quale gli israeliani nutrono un profondo interesse. Esso sta anche verificando i limiti della sua spaventosa forza militare. Bush e la sua cerchia lo negano, ma gli Usa stanno seguendo la stessa strada che li ha portati alla sconfitta in Corea e in Vietnam, mentre il loro esercito è sempre più teso e demoralizzato. Essi hanno basato la loro politica estera su fantasie e pericoli inesistenti, sogni e desideri neo-con, per soddisfare solo parzialmente l'obiettivo israeliano, altrettanto illusorio, di trasformare l'intero Medio Oriente in modo che accetti Israele in qualunque forma proposta dal volubile elettorato israeliano.
Sin dal 1945, la politica estera Usa è sempre stata gravida di pericoli, ma questo è il peggior gruppo di incompetenti ad avere mai detenuto il potere a Washington., che ha «scioccato e intimorito», per usare l'espressione dell'ex segretario alla difesa Rumsfeld, se stesso. Per i guerrieri conservatori le cose stanno andando in modo disastroso. Il presidente Bush ha fatto delle elezioni di medio termine un referendum sulla guerra; per il suo partito è stata una disfatta. Disorientamento, depressione e senso di sconfitta hanno lasciato il presidente e i suoi neo-con a galla. Avranno il potere ancora per due anni, perciò siamo alla mercè di persone irresponsabili e pericolose la cui retorica si è dimostrata una ricetta per il disastro in Afghanistan e in Iraq - un incubo surreale. L'opinione pubblica americana è in larga misura contraria alla guerra (il 55% dei votanti disapprovano la guerra, e quasi tutti energicamente). L'elettorato si è espresso contro la guerra e solo tangenzialmente per i Democratici, la maggior parte dei quali avevano lasciato vagamente intendere che avrebbero fatto qualcosa per la guerra in Iraq, ma hanno immediatamente fatto marcia indietro senza la minima vergogna. Le persone, e in particolare coloro che si recano alle urne, reagiscono alla realtà più velocemente che in passato, il che significa che i politici tradizionali devono tradirli molto velocemente. Esse pongono dei paletti che i politici ambiziosi ignorano, correndo però un rischio più grande che mai, perché la popolazione si è dimostrata pronta a mandare a casa i mascalzoni: sia Democratici, come nel 1952 e nel 1968, che Repubblicani, come in questo novembre.
Il pubblico americano è più che mai contrario alla guerra, e nessuno può prevedere cosa riserva il futuro; alcuni Repubblicani potrebbero scavalcare a sinistra i Democratici assumendo posizioni contrarie alla guerra, conservando così le proprie posizioni di potere, o magari guadagnandone di nuove. Che la popolazione sia conseguentemente, spregiudicatamente, cinicamente ignorata - così come lo è stata subito dopo le ultime elezioni americane - è un fatto anch'esso, ma il suo ruolo non può essere sopravvalutato né ignorato.
L'esperienza dimostra che i politici, comunque si definiscano e a qualsiasi latitudine, non sono mai affidabili. Mai. È molto difficile prevedere che cosa farà questa amministrazione, anche se i disastri degli ultimi sei anni hanno reso molto meno praticabili varie opzioni. In un certo senso questo è positivo, anche se il costo in termine di vite sacrificate e di ricchezze sperperate è stato immenso.
La commissione bipartisan Baker-Hamilton è profondamente spaccata e anche se - con l'accento sul «se» - proponesse una alternativa chiara, il presidente sarebbe libero di ignorarla. Il Pentagono ha formulato diverse alternative, sintetizzate nelle formule go big, go long (entrambe le quali richiederebbero 5-10 anni per «irachizzare» la guerra), oppure go home, ma è diviso anch'esso.
Comunque, una cosa è certa: non ha né gli uomini, né il materiale, né la libertà politica per commettere gli stessi errori commessi in Vietnam, come le prime due ipotesi richiederebbero. In Iraq non ci sono opzioni perché gli Usa hanno traumatizzato l'intero paese creando problemi immensi che non sanno come risolvere.
Nessuno può prevedere cosa faranno gli Usa in Iraq perché l'amministrazione Bush spera di preservare l'illusione del successo, ed è veramente confusa su come procedere. Ha prodotto un caos. Molto probabilmente, negli anni a venire, l'Iraq resterà una tragedia, un paese squassato dalla violenza. Bush ha causato un enorme disastro mettendo a repentaglio la vita di molti milioni di persone.
Molto dipende dal presidente, la cui politica è totalmente fallita in Iraq e sta fallendo anche in Libano. Una delle opzioni è l'escalation: la guerra con l'Iran. Israele potrebbe attaccare l'Iran per tirare dentro l'America, ma da solo può essere solo un catalizzatore e lo sa, almeno a certi livelli. E Ehud Olmert e Bush affrontano queste questioni in modo molto simile.
Sia come sia, Bush non ha escluso la guerra con l'Iran nonostante gli avvertimenti di molti rappresentati dell'esercito che un simile conflitto avrebbe vaste ripercussioni, verosimilmente durerebbe anni e gli Usa lo perderebbero dopo aver creato un Armageddon. Anche se usassero armi nucleari. Comunque questa possibilità sta diventando meno probabile perché il Pentagono è sempre più contrario e inoltre non ha risorse sufficienti per combattere una guerra del genere, che potrebbe durare anni a meno che non venga usata immediatamente una schiacciante forza nucleare, cosa improbabile.
Una serie di teorici neo-con si sono pentiti dell'avventura irachena, e anche di alcune delle premesse fondamentali che l'avevano motivata, ma sarebbe un errore dare per scontato che questa amministrazione abbia un contatto con la realtà e possa trarre insegnamento - dall'elettorato o da intellettuali neo-con isolati. Ci sono ancora tantissime persone a Washington che spingono per rischiare il tutto per tutto, che coltivano ancora illusioni. Resta il fattore imponderabile dell'atteggiamento semi-religioso di Bush: fantasia e illusioni mescolate a desideri. La vittoria è dietro l'angolo se aumentiamo gli uomini? Le truppe irachene addestrate dagli americani potranno vincere contro nemici che hanno avuto la meglio sulle forze armate Usa? Una strategia simile fu adottata in Vietnam, e fallì. Molti presidenti decisamente più saggi hanno rincorso illusioni di questo tipo. Perché non anche Bush? La situazione sul campo, molto più problematica per la potenza americana di quanto fosse prevedibile sei anni fa, è un fattore cruciale. Ma questo potrebbe non bastare a impedire un comportamento irrazionale.
Noi, semplicemente, non possiamo saperlo. È un momento pericoloso per il mondo intero.

Note: Traduzione Marina Impallomeni

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