L'incerto bilancio del Libano «italiano»
Il Libano guarda al futuro con grandi timori. Sono passati sei mesi dai bombardamenti israeliani che lo scorso agosto hanno provocato pesanti distruzioni, molte delle quali sono ancora evidenti negli enormi crateri rimasti aperti. L'iniziativa e l'inventiva dei libanesi non bastano. Occorrono molti soldi per la ricostruzione dei quartieri rasi al suolo, accanto ai grattacieli di vetro rimasti intatti nella parte elegante della capitale libanese - anche se è vero che la situazione è stata provvisoriamente tamponata dai 10-15.000 dollari a famiglia distribuiti da Hezbollah, che hanno permesso a chi aveva perso la casa di affittarne un'altra, per almeno due anni.
E poi ci sono le costose infrastrutture (soprattutto i ponti) la cui distruzione ha diviso il piccolo paese, allontanando una città dall'altra.
Al sud sono arrivati fondi dall'Arabia saudita e dai paesi del Golfo, per cominciare a ricostruire le strade. Ma resta molto da fare. Soprattutto la bonifica del terreno dagli ordigni inesplosi (cluster bombs in quantità) e dall'uranio impoverito, le cui presenza è stata confermata da uno studio condotto in Austria e Germania dal fisico nucleare Muhammad al Qubaisy su alcuni campioni di terreno prelevati dal cratere di una bomba nella zona di Khiam, vicino alla «Linea blu» tra Libano e Israele. Risultati già confermati anche da esperti del Comitato europeo per i rischi da radiazioni. La bonifica del territorio tuttavia è per ora affidata soprattutto ai contingenti e all'Onu attraverso l'Unmas.
E gli aerei israeliani che continuano a sorvolare il paese non sono certo rassicuranti, mentre si lavora alla ricostruzione.
Entusiasmo finito
Ma non è solo Israele a preoccupare. Le ferite lasciate dalla guerra fanno riflettere chi non vi ha partecipato. Finito l'entusiasmo per la battuta d'arresto inferta da Hezbollah all'esercito israeliano, ci si chiede se vale la pena continuare a combattere per poi vedersi distruggere il paese. Dopo tante guerre e invasioni i libanesi vogliono la pace, mentre le aspre divisioni politiche hanno fatto nascere timori di una nuova guerra civile.
Il centro della città dall'inizio di dicembre è trasformato in un enorme campeggio con al centro, ben ordinate, le tende bianche degli oppositori, messe in piedi da Hezbollah con tanto di servizi e riscaldamento. Gli islamisti filo-iraniani pagano anche i pasti, i trasporti e il servizio d'ordine (si dice 20 dollari al giorno). Tutt'intorno gli accampamenti militari che controllano gli oppositori, a loro volta circondati da barriere che costringono i passanti a chilometri di strada a piedi per attraversare il centro.
A parte i disagi evidenti per la popolazione, le divisioni e le accuse tra gli oppositori (soprattutto sciiti di Hezbollah e Amal, ma anche cristiani legati al generale Aoun e alcuni sunniti e drusi) e i sostenitori del governo di Fuad Siniora, stanno provocando una grande impasse politica - oltre ad aggravare la situazione economica (4 miliardi di dollari di perdite solo nel settore turistico). Senza contare la psicosi crescente soprattutto tra i sunniti, che temono uno scontro con gli sciiti: Il prossimo scontro in Libano, se ci sarà (speriamo di no), non contrapporrà più come in passato cristiani e musulmani ma sciiti e sunniti, come oggi in Iraq; con i cristiani divisi tra i due fronti.
È in questa situazione non facile che si gioca la nuova scommessa della politica estera e militare italiana. Con le dimissioni di sei ministri sciiti e il resto del governo asserragliato nel suo palazzo, sono venuti meno molti interlocutori, anche per progetti di cooperazione già in corso. Inoltre la spaccatura del governo impone complicati equilibrismi nei rapporti ufficiali per evitare che uno sbilanciamento a favore del sunnita Siniora - che comunque il governo italiano appoggia - possa provocare problemi ai soldati che si trovano in una zona sciita, controllata da Hezbollah.
Comunque, è proprio a partire dal Libano che l'Italia ha segnato un ritorno di protagonismo sulla scena internazionale. La missione Unifil 2 è stata fortemente voluta dal governo di Romano Prodi (che ha convinto anche altri paesi a parteciparvi) pur con tutti i rischi che essa comporta. Rischi da affrontare per affermare una svolta nelle missioni italiane all'estero.
La scommessa consiste nell' accompagnare, senza confonderli, la missione di peacekeeping (operazione Leonte, di cui il manifesto ha già resocontato il 21 dicembre scorso) con un forte impegno di cooperazione civile per l'emergenza. Anche se in termini di finanziamenti non c'è paragone: 180 milioni di euro in quattro mesi (da settembre a dicembre 2006) per il dispiegamento di 2450 militari, 30 milioni di euro per un anno di cooperazione.
Logica capovolta
Nonostante lo squilibrio evidente, quantomeno si è capovolta la logica del governo Berlusconi, che vedeva l'esercito come unico strumento - oltre agli affari: ma non era così anche al tempo delle colonie? - della nostra politica estera e aveva mandato i militari italiani, formalmente in missione di pace, a occupare l'Iraq: col risultato di trasformare anche la pattuglia della Croce rossa, mandata a Baghdad in avanscoperta, in un nemico (e dunque in un bersaglio) degli iracheni. Un capovolgimento non facile ma necessario, anzi indispensabile, per un governo che si dice di centro-sinistra.
Così è cominciata la missione Leonte che ha portato i soldati italiani nella zona occidentale a sud del fiume Litani, di cui hanno il controllo. La spedizione militare è stata approntata velocemente, per l'urgenza di garantire la tregua tra Israele ed Hezbollah sancita dalla risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell'Onu.
Più difficile, paradossalmente, l'avvio della parte «civile» della missione, componente indispensabile per far digerire almeno da una parte consistente del mondo pacifista una nuova spedizione militare all'estero - rifiutata comunque da altri. Missione accettata con l'impegno, tra l'altro, della viceministra degli esteri Patrizia Sentinelli, di mettere allo studio la creazione di corpi civili di pace: «Ci sono già esperienze in questo senso in alcuni paesi, noi addestreremo una ventina di persone e proprio in Libano, forse già in febbraio, sarà sperimento il primo corpo civile di pace».
Dei 30 milioni di euro stanziati dal governo italiano per il Libano 10 sono andati alla cooperazione multilaterale più 5, per la ricostruzione di infrastrutture, al governo libanese - che avrebbe aspirato ad un importo più consistente, visti i costi ingenti per il ripristino dei ponti. Ma il governo italiano ha scelto la diversificazione riservando la metà dello stanziamento alla cooperazione diretta e alle ong.
E proprio su questo terreno si è notata una vera svolta, almeno nell'approccio alla cooperazione civile; al fine di evitare, come spesso è accaduto, che la cooperazione italiana fosse investita da scandali o accusata di sperpero di danaro pubblico o almeno di scarsa trasparenza. Questa volta Patrizia Sentinelli ha voluto mettere intorno ad un tavolo tutti gli interlocutori, non solo funzionari della cooperazione ma anche associazioni e movimenti, che insieme hanno concordato le linee guida dell'intervento civile in Libano. Una «gestione partecipata» apprezzata dalle ong, sostiene Sergio Bassoli, di Progetto sviluppo della Cgil.
Un passo indietro
Ma per cercare di capire il procedimento utilizzato per il finanziamento dei progetti occorre fare un passo indietro. Il carattere di emergenza ha fatto sì che i fondi (15 milioni di euro) fossero trasferiti subito in Libano: per essere utilizzati entro la fine dell'anno, oppure perché fossero almeno approvati i progetti, evitando così che gli stanziamenti finissero tra i residui passivi. Occorreva quindi fare in fretta, garantendo nello stesso tempo l'efficacia dell'intervento.
Paolo Bononi, responsabile dell'ufficio tecnico di Beirut (Ross), dopo essere stato impegnato nell'emergenza tsunami, ha fatto ricorso al modello sperimentato in Sri Lanka. Naturalmente il «modello Sri Lanka» necessitava di un adattamento alla diversa situazione libanese, dove non si tratta di emergenza determinata da una catastrofe naturale ma di emergenza provocata dalla guerra. Da qui la necessità di ricreare un clima di pacificazione attraverso la ricostruzione ambientale e del tessuto sociale nelle zone più colpite dal conflitto. Il «modello» prevedeva la costituzione di un ufficio tecnico in loco con vari esperti o «tutor» - che in alcuni momenti avrebbero raggiunto la ventina - incaricati di seguire la fase di costruzione dei vari progetti già nel corso dello studio di fattibilità.
La verifica avveniva attraverso visite degli esperti sul posto previsto per l'intervento, incontri con gli interlocutori libanesi e le autorità locali per accertare la validità e l'accoglienza del progetto. Le visite servivano anche per individuare la possibilità di compiere altri interventi diretti. Infatti non è stato stabilito quanto dei 15 milioni di euro era assegnato ai progetti delle ong e quanto alla cooperazione diretta. E soprattutto non siamo riusciti ad avere cifre precise su quanto costa l'ufficio di Beirut, dove sei tecnici resteranno fissi per un anno per seguire i progetti fino al loro esaurimento, con varie missioni degli altri esperti, a caccia di progetti da promuovere direttamente, non si sa se interessati più al futuro del Libano o alle loro consulenze.
C'è chi parla di due milioni di euro di spese previste per il Ross, altri di molto meno, ma sicuramente con una percentuale rilevante in rapporto al finanziamento totale. Il procedimento messo in moto è risultato alla fine piuttosto macchinoso, anche se senz'altro motivato da buone intenzioni.
Se le premesse dell'intervento civile erano positive, il risultato non è stato altrettanto soddisfacente. «C'è stato un progressivo scollamento tra le impostazioni politiche di Roma e l'applicazione dei tecnici in Libano», sostiene Sergio Bassoli. Su diversi aspetti. Un esempio: alcune direttive sono state pubblicate sul sito del ministero a due giorni dalla scadenza per la presentazione dei progetti (prevista in un primo tempo il 30 novembre e poi slittata al 15 dicembre). Nelle intenzioni del tavolo di consultazione avrebbero dovuto essere favorite le ong già presenti in Libano, possibile punto di riferimento di consorzi tra diverse ong per evitare la frammentazione dei progetti. Infatti, secondo le linee guida non era stato stabilito un tetto massimo per ciascun progetto, che invece il Ross ha fissato in 500.000 euro - favorendo così l'intervento a pioggia, lamenta Bassoli.
L'obiettivo era evidentemente quello di accontentare tutti. Ma se prima della guerra erano meno di dieci le ong presenti in Libano, con l'arrivo dei finanziamenti molte altre vi si sono buttate, come era facilmente prevedibile. E visto che non è stato rispettato l'approccio consortile, tutte sono andate in ordine sparso. Peraltro la verifica degli esperti era spesso più legata a criteri tecnici che a una reale conoscenza del terreno. E non sempre le loro indicazioni coincidevano. Tutto questo ha contribuito ad alimentare una notevole confusione.
Un compito non facile
La commissione incaricata di verificare i progetti e presieduta dall'ambasciatore italiano in Libano, Gabriele Checchia, non ha quindi avuto compito facile, anche se la presenza dei «tutor» che monitoravano i progetti avrebbe dovuto rendere più facile l'esame finale, garantendo la qualità e la distribuzione geografica delle varie proposte. Invece i progetti presentati alla fine sono risultati ben 35 e tutti concentrati in tre zone (Tiro, Nabatiye e valle della Bekaa); non a caso, visto che erano quelle indicate dai tecnici come «aree di emergenza», a causa delle distruzioni o della povertà latente. Anche i settori di intervento si sovrappongono: sanità, educazione, agricoltura.
«E ora ci chiedono di coordinarci!», esclama Sergio Bassoli. Che lamenta per di più la pretesa dei tecnici di monitorare i progetti anche in fase di realizzazione, al posto di un capoprogetto delle ong, «per giustificare le spese spropositate dell'ufficio tecnico». A causa di queste difficoltà non si conosce ancora il risultato dell'esame della commissione che doveva essere noto a fine anno.
Un processo iniziato con le migliori intenzioni non ha dato i risultati attesi, facciamo notare alla viceministra Sentinelli, incaricata della cooperazione. La risposta è interlocutoria: «Valuteremo la prima parte di questa esperienza, che era iniziata positivamente con la costituzione del Tavolo, per correggere quello che non funziona e per rafforzare le professionalità».
Il Libano tra danni e doni
La conferenza dei paesi donatori per il Libano, che si è tenuta il 31 agosto 2006 a Stoccolma, ha raccolto 940 milioni di euro (circa 735 milioni di euro) da destinare alla ricostruzione del Libano, dopo 33 giorni di bombardamenti israeliani che hanno distrutto molte infrastrutture: ponti, strade, fabbriche. Le prime stime del Fmi tuttavia hanno valutato l'ammontare dei danni alle infrastrutture in 3,5 miliardi di dollari. Oltre a 150 ponti distrutti, secondo l'Alto commissariato dell'Onu sono state danneggiate 60.000 case, di cui 15.000 rase al suolo.
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