Conflitti

L’inevitabile fine di Saddam Hussein

Anche la farsa attorno all'esecuzione di Saddam Hussein è stata subito smascherata.
10 gennaio 2007
Hasan Abu Nimah
Tradotto da per PeaceLink
Fonte: The Jordan Times - 04 gennaio 2007

Come tutte le finzioni che caratterizzano ormai “Il nuovo Iraq”, anche la farsa attorno all’esecuzione di Saddam Hussein è stata subito smascherata. Subito dopo l’annuncio dell’impiccagione di Saddam, avvenuta all’alba del primo giorno di Eid Al Adha, il governo iracheno ha rilasciato un filmato nel quale l’ex leader viene condotto nella camera dell’esecuzione. Il filmato, privo di audio, doveva dare l’impressione di una fine solenne e dignitosa per l’ex presidente, un vero azzardo per una punizione capitale (qualcosa che il mondo rifiuta sempre di più).

Ma nei giorni successivi, con la circolazione di filmati illegali, ne è emerso un quadro più realistico e persino più inquietante. Stando a quanto dichiarato dal New York Times, la questione dell’esecuzione “è degenerata in polemiche faziose che hanno trasformato il sign. Hussein, uno sterminatore di massa, in un uomo dignitoso e misurato, e i suoi boia, rappresentanti degli sciiti, le sue principali vittime, in dei bulli da strada”. Il giornale ha anche rivelato la preoccupazione diffusasi tra gli ufficiali americani per la fretta, e dubbia legalità, dimostrate dal governo iracheno nell’esecuzione della sentenza di morte, per di più proprio nel primo giorno di Eid Al Adha, il che non ha soltanto trascinato l’evento nell’illegalità, ma anche urtato i sentimenti di milioni di iracheni.

E sono stati molti i leader arabi che hanno criticato, anche se sottovoce, la decisione di eseguire la condanna proprio in questo giorno. Ma il problema non è soltanto la data dell’esecuzione. Saddam ha inferto enormi sofferenze al popolo che ha governato e a quelli dei paesi che ha invaso, inclusi l’Iran e il Kuwait. Per i crimini commessi, meritava un processo equo e completo. Le sue stesse vittime lo meritavano. Ma il procedimento e l’esecuzione ai quali questi hanno assistito non rappresentano di certo la giustizia, né per il contesto iracheno né per quello internazionale. Lontano dall’essere un atto di giustizia per le sue vittime, per gettar luce sugli anni, lunghi e bui, della sua dittatura e promuovere una riconciliazione internazionale, questa esecuzione non si è rivelato nient’altro che una vendetta settaria capace di esacerbare le ostilità che giornalmente sacrificano dozzine di innocenti e che hanno portato alla pulizia etnica in molte parti di Baghdad.

Nel contesto internazionale, il processo non ha fatto nulla per avvalorare il principio di legalità o per garantire la responsabilità di chi si macchia di crimini di tale gravità. Anche le associazioni occidentali sui diritti umani hanno posto in rilievo il mancato rispetto dei requisiti minimi di giustizia ed imparzialità nel processo di Saddam, condotto mentre i suoi nemici governano il paese, sostenuti dagli invasori stranieri. Il governo iracheno ha affrettato l’esecuzione, ma non era il solo ad avere interesse ad assistere ad una rapida fine di Saddam. L’ex leader iracheno è stato condannato unicamente per avere assassinato 140 uomini e ragazzi nel villaggio di Dujail, come rappresaglia per un fallito attentato contro di lui nel 1982. E dal momento che non sarà mai processato per tutti gli altri crimini commessi, non potremo mai sapere fino a che punto l’Occidente, in particolare l’America e l’Europa, sono stati complici del suo regime. Testamento di questo pezzo di storia deliberatamente dimenticato è la fotografia un po’ granosa che ritrae la salda stretta di mano tra l’ex segretario della difesa americano Donald Rumsfeld e Saddam.

Molte delle verità che il mondo aveva il diritto di conoscere sono morte per sempre con quella brutale esecuzione. Eppure, anche se il processo contro Saddam fosse stato condotto in maniera impeccabile, non dobbiamo dimenticare il principio fondamentale della giustizia secondo cui la legge è uguale per tutti. Questa “giustizia” non ha possibilità di conquistare le grandi masse della regione se le punizioni sono rapide e brutali solo quando l’accusato è un capo di stato arabo, musulmano, mentre altri ex leader messi sotto accusa, come Slobodan Milosevic, hanno processi scrupolosi nel tribunale dell’Aia (talmente lunghi che Milosevic, ad esempio, è morto per cause naturali proprio nel corso del processo, in atto già da diversi anni).

Il generale Augusto Pinochet, posto sotto custodia in Inghilterra, fu liberato e morì anche lui in pace senza rispondere nemmeno di un capo d’accusa. Ancora peggio, quando si tentò di intentare azioni legali contro Ariel Sharon e altri criminali di guerra in Belgio e in altre capitali europee, sui paesi coinvolti fu fatta un’enorme pressione per spingerli addirittura a cambiare la loro legislazione al fine di ostacolare il corso della giustizia e proteggere gli imputati. A dicembre, un distretto giudiziario di Washinton, DC, ha respinto un’azione legale contro l’ex capo di stato maggiore israeliano, il Generale Moshe Yaalon, intentata da alcune vittime palestinesi, dichiarandolo non imputabile dal momento che, all’epoca dei presunti crimini, indossava l’uniforme. Lo scioccante rovesciamento di alcuni dei principi fondamentali stabiliti dai processi di Norinberga è passato quasi del tutto inosservato. E, ovviamente, è in primo luogo la guerra ad averci portato a questo punto. Dozzine, se non centinaia, di iracheni stanno morendo ogni giorno.

Tutti coloro che hanno giustificato una guerra con bugie ed invenzioni, chi si sono fatti beffa della Carta dell’ONU, che hanno tentato di sfruttare l’Iraq come fonte di benessere e di facile guadagno per le proprie corporazioni e i propri fornitori, pagheranno mai per i misfatti compiuti? E’ più probabile che andranno in pensione come rispettabili “statisti”, i cui saggi consigli saranno seguiti nei decenni a venire. Alla fine di un processo lungo, durato più di sedici anni, incluse due grandi guerre, intervallate da 12 anni di violenza e di dure sanzioni ONU contro l’Iraq e il povero popolo iracheno, e la successiva e fatale invasione del Kuwait nel 1990, la fine di Saddam e del suo regime erano inevitabili.

Quello che si sarebbe potuto evitare invece è il modo orribile con cui questa fine è stata “raggiunta” e, ancora peggio, il fondo toccato dalla politica delle superpotenze nella nostra regione. Il modo orribile in cui Saddam è stato ucciso non servirà a riportare la pace nella regione, né sarà d’aiuto all’Iraq. Testimonia semplicemente la barbarie che ha rimpiazzato le linee politiche e la diplomazia negli affari internazionali e il degrado e l’umiliazione della nazione araba. Non rappresenta altro che un passo ulteriore verso il deterioramento, proprio quando si dovrebbero adottare urgenti misure correttive. Com'è possibile che esistano governatori, dall’Africa all’Afghanistan, siano essi protetti dall’Occidente o loro nemici, che non riescono a capire di essere al centro dello stesso orribile e tragico dramma? Ma forse è proprio questo il punto, da sempre.

Note: Link al testo originale in inglese:
http://www.zmag.org/content/showarticle.cfm?SectionID=15&ItemID=11777

Tradotto da Maria Teresa Masci per www.peacelink.it.
Il testo è liberamente utilizzabile, per scopi non commerciali, citando la fonte (Associazione Peacelink), l'autore ed il traduttore.

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