Conflitti

Errol Morris, il cine-dtective Intervista al grande documentarista americano

Icone di guerre Abu Ghraib, il film

«Sono sicuro che tra qualche anno, quando si penserà alla guerra in Iraq, le immagini che torneranno in mente saranno quelle di Abu Ghraib». Il regista premio Oscar per «The fog of the War» racconta il suo nuovo documentario sul carcere delle torture e dell'orrore
13 gennaio 2007
Lucio Mollica
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Boston «Se c'è una cosa che sopravvive a una guerra, sono le immagini che la ritraggono. Diventano icone, riferimenti culturali più o meno condivisi. Sono sicuro che tra qualche anno, quando si penserà alla guerra in Iraq, le immagini che a tutti torneranno alla mente saranno quelle scattate nel carcere di Abu Ghraib». Lo dice Errol Morris, cineasta indipendente, che incontro nel suo studio di Cambridge, a pochi passi dall'università di Harvard. Stampe di propaganda della prima guerra mondiale alle pareti e la collezione completa degli scritti di Edgar Allan Poe sugli scaffali della libreria. Errol Morris sta ora lavorando a un documentario sulla più umiliante delle sconfitte americane in Iraq: le torture nel carcere di Abu Ghraib.
Cosa ti ha spinto ad occuparti di Abu Ghraib?
Sono appassionato alle fotografie di guerra. Mi interessa molto capire cosa rivelano, e cosa nascondono. Riguardo Abu Ghraib, m'interessava tutto ciò che quelle foto non dicevano. Sono foto molto strane. Penso a quella con la piramide umana, per esempio. O a quella in cui un detenuto incappucciato è legato con dei fili elettrici. O a quella della soldatessa che tiene un prigioniero per un collare, un'immagine di dominazione che si capovolge e diventa involontariamente ironica, e ci fa pensare a chi è dominato da cosa, e per quale proposito.
Un dossier della Croce Rossa aveva denunciato gli abusi di Abu Ghraib già nel 2003, eppure lo scandalo è scoppiato solo sei mesi dopo, con la divulgazione delle foto. Perché le immagini sono tanto più forti delle parole?
Le immagini fotografiche, inclusi i film, sono davvero misteriose. Da un lato sono vere, perché vengono dal mondo reale. E quindi non si può non credergli. Ma al tempo stesso, la realtà che rivelano è parziale. In un brano di Mark Twain che mi piace molto, il re del Belgio, Leopoldo dice: «La Kodak è il solo testimone che non sono stato capace di corrompere». È vero, ma credo che sia anche il solo testimone del quale non si può essere sicuri di cosa dirà. Persone diverse vedono cose diverse nella stessa foto. E il valore di una foto è sempre relativo a una cultura.
Nel mio paese, la foto simbolo della seconda guerra mondiale è quella di Iwo Jima: soldati americani che issano una bandiera e nessun giapponese. Se parliamo del Vietnam, due foto vengono alla mente. La bambina, che corre in quella stada devastata dal Napalm, e quella con il sodato vietnamita che spara al viet cong. Sono foto che tutti conoscono. E in entrambi, non ci sono gli americani. È l'effetto della presenza americana, ma gli americani non ci sono.
I tuoi film hanno sempre una forte natura investigativa. Che tipo d'indagine è stata questa?
Ho passato buona parte dell'anno a lavorare su Abu Ghraib, e non è un piccolo soggetto. Ho scoperto molte cose, e la prospettiva è di scoprirne ancora di nuove. Il che mi fa morire dalla voglia di andare avanti. Ci sono varie teorie su come tu possa indagare e trovare cose nella realtà, ma è sempre l'intervista il metodo che preferisco. Del resto, il solo modo per scoprire quello che una persona sa, o pensa, è chiederglielo, e sentirla parlare. E dopo viene la domanda: come bisogna intervistare le persone. Professori, ispettori di polizia e giornalisti fanno, a modo loro, delle interviste.
Eppure le loro tecniche sono diverse. Come gli effetti che ottengono. La mia tecnica sta nel lasciare parlare le persone, senza interromperle. Punto al flusso di coscienza, a far ribollire le cose, per estrarre l'essenza del personaggio che ho davanti. Ne controllo l'energia. Ho fatto così tante interviste nella mia carriera che adesso credo che sia possibile dirigerle almeno quanto una scena di fiction. E più penso alle differenze tra fiction e documentari, meno ne vedo. Con una sola precisazione: ai documentari è richiesto di parlare del mondo reale, piuttosto che di mondi immaginari. Sei costretto di fronte a ogni personaggio a chiederti: mi sta dicendo la verità? E il dramma nasce proprio dalla tensione tra quanto queste persone dicono e il mondo reale.
Immagino che non sia stato facile ottenere delle risposte su una vicenda così delicata. Hai incontrato molta omertà?
Meno di quanto si potrebbe credere. Il mio problema è semmai un altro. Quando intervisto una persona non riesco mai a fermarmi. Con la pellicola, ogni dieci minuti bisognava cambiare il rullo. E poi c'era il problema dei costi. Il passaggio al digitale ha fatto sì che io possa andare avanti ininterrottamente. Per questo film ho già accumulato oltre 150 ore, la prima intervista è durata 17 ore, due giorni di lavoro. Questo film su Abu Ghraib è forse il più semplice di tutti quelli che ho fatto finora. Abbiamo una parete di cemento dipinta, e fa da sfondo a ogni personaggio nel film. In termini di sfondo non c'è nulla che differenzi i personaggi. Sono identici, per un numero di ragioni. Primo, perché sapevo che avrei creato molto materiale visivo, e volevo che le interviste fossero una cosa ben distinta. E secondo, è una prigione. Io non volevo rappresentare una Abu Ghraib reale, una vera cella o un posto specifico. Abu Ghraib è qualcosa che ogni personaggio si porta in testa. Una propria Abu Ghraib, quella che ha conosciuto. E volevo uno sfondo neutrale per far sì che questo venisse fuori. E come hai scelto di rappresentare Abu Ghraib?
Mi piace pensarla come una piccola città. Le piccole città sono sempre state importanti nei miei film, ma non sono mai come la Springfield dei Simpsons. Perché vi succedono cose strane, uniche. Quando pensi alla guerra, pensi a persone coinvolte in battaglie, e Abu Ghraib era la città. Non so a quanto ammontasse la sua popolazione, migliaia di detenuti e centinaia di soldati. Tutti intrappolati in una sorta di microcosmo, separato eppure profondamente connesso al mondo esterno.
E che tipo di racconto ne è venuto fuori? Spesso nei tuoi film ti sei ispirato al cinema di genere americano: il noir, la fantascienza, il war-movie.
Quando mi avvicino a una storia che mi interessa, e comincio a pensare di farci un film, inizio a domandarmi: come posso fare questo film? Questa è la cosa più stimolante nel fare documentari, che devi inventare un modo di raccontare ogni volta. Descrivo spesso questo film come un horror di nonfiction, e per questo l'autore delle musiche sarà Danny Elfman, il compositore di Tim Burton e della musichetta più famosa del mondo, la sigla dei Simpsons.
Questo mi fa pensare che tu voglia giocare la carta dell'ironia.Devo confessare di sì. L'ironia fa parte del modo in cui incorporo la mia ricerca del vero in una storia. Ma lo stile non va confuso con la verità, e in un documentario ci sono questioni delle quali bisogna decidere se sono vere o false. Ci sono molte domande che Abu Grahib solleva. Su quello che è successo lì, senz'altro, ma anche sulla guerra, su noi stessi e sul tempo in cui viviamo. È un momento storico strano, e la direzione in cui il mondo sta andando non mi piace affatto. Come cineasta, sento il bisogno di cercare la verità. Stare zitti, senza guardare quello che succede incontro, è da irresponsabili.

Note: Ritratto
Errol Morris, il cine-dtective
Grande documentarista, Errol Morris nato a Long Island ma residente da 16 anni a Cambridge (Massachusetts) ha lavorato per anni come detective privato a New York, prima di raggiungere il successo con «The thin blue line» ('88), il primo film della storia a risolvere un vero caso di omicidio, facendo scagionare un innocente condannato al patibolo. Nel 2004 ha ottenuto un Oscar per «The Fog of War: Eleven Lessons from the Life of Robert S. McNamara», intervista con l'ex segretario della difesa Usa McNamara. Il suo primo documentario è stato «Gates of Heaven» (1980) che raccontava della competizione commerciale nell'ambiente dei cimiteri per cani, gatti e altri animali da compagnia. Oltre alla serie tv «First Person» è un editorialista per il «New York Times» e il «Los Angeles Times». Sta ora realizzando «S.O.P. Standard Operating Procedure» un documentario sulla prigione irachena di Abu Ghraib e sulle torture praticate al suo interno da militari degli Stati Uniti.

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