Conflitti

Bottino di guerra, il petrolio iracheno alle multinazionali Usa

Petrolio etnico L'occupazione e la divisione dell'Iraq con nel mirino Siria, Arabia Saudita e Iran. Una mossa contro l'Opec Il sacco di Baghdad Presto una legge irachena «made in Usa» consegnerà nelle mani delle società petrolifere il 70% dei proventi del petrolio
9 gennaio 2007
Stefano Chiarini
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

«Scivolando silenziosamente nella notte del Golfo Persico i Navy Seals - scriveva un eccitato reporter del «New York Times» il 23 marzo del 2003 - hanno occupato due terminali petroliferi off shore con una serie di arditi attacchi terminati questa mattina all'alba, e sono riusciti ad imporsi alle armi leggere delle guardie irachene ottenendo una vittoria incruenta nella battaglia per il vasto impero petrolifero dell'Iraq». Una vittoria che venne subito seguita, come programmato dai dettagliati piani del Pentagono, dall'occupazione delle principali installazioni petrolifere del paese e da quella, a Baghdad, del ministero del petrolio presidiatissimo dalle truppe Usa mentre gli stessi militari americani aprivano le porte degli altri ministeri o ne abbattevano i muri per invitare la folla al saccheggio della storia e della memoria dell'Iraq.
Nei prossimi giorni, forse ore, secondo quando ha scritto domenica il settimanale britannico «The Indipendent on Sunday», l'Amministrazione Bush e il cartello delle principali compagnie petrolifere, sarebbero sul punto di mettere definitivamente le mani sul petrolio di quello che Paul Wolfowitz definì «un paese che naviga sul petrolio».Un paese considerato il terzo al mondo per riserve petrolifere, dopo l'Arabia Saudita e l'Iran, ma che potrebbe essere in realtà il secondo, se non il primo. Ufficialmente l'Iraq ha riserve per 115 miliardi di barili di petrolio, il 10% del totale mondiale, ma in realtà nel deserto occidentale vi sarebbero quantità di petrolio ancora sconosciute. Si tratta di un petrolio di ottima qualità e molto facile da estrarre a tal punto che in alcune zone le autorità hanno dovuto gettare delle colate di cemento per evitare che i cittadini, scavando, facessero zampillare dal suolo l'oro nero. Un petrolio che quindi costa pochissimo da estrarre.
Questo giardino delle delizie per i petrolieri presto sarà di nuovo, a oltre trent'anni dalla nazionalizzazione del settore portata avanti dall'allora presidente Hassan al Bakr e dal vice presidente Saddam Hussein nel 1972, pronto ad essere sfruttato a condizioni di grande favore dalle grandi multinazionali come la Bp e la Shell britanniche e le americane Exxon e Chevron. E magari qualche briciola relativa ai giacimenti di Nassiriya potrebbe anche essere lasciata dalle compagnie Usa all'Eni. Qualcosa di assai diverso da quel che sarebbe potuto avvenire se Enrico Mattei non fosse stato ucciso con il suo aereo il 26 ottobre del 1962 nei pressi di Linate. Pochi giorni dopo il presidente dell'Eni avrebbe dovuto perfezionare un accordo con il governo iracheno di Abdel Karim Kassem che il 30 settembre aveva annunciato la formazione dell'Ente Nazionale Iracheno per il petrolio, per la produzione annua di 20 milioni di tonnellate di petrolio. Una vera sfida alle sette sorelle.
La nuova legge che sarà discussa dal governo di Baghdad filo-Usa e filo-Iran e approvata dal parlamentino uscito dalle elezioni truffa dello scorso anno, si discosta totalmente da quelle normalmente applicate nella regione e nei paesi in via di sviluppo dal momento che sotto un sistema chiamato «Production-Sharing Agreements», o Psa, permette alle società petrolifere di incamerare il 75% dei profitti fino a quando non avranno ricuperato i costi sostenuti per poi scendere, se verrà mai quel giorno, al 20%. Esattamente il doppio di quanto in passato governo di Saddam Hussein aveva offerto alla vigilia della seconda guerra del Golfo alla Total per lo sviluppo di un grande giacimento petrolifero e di quanto viene praticato normalmente. Per di più i contratti avranno una durata trentennale e se qualche futuro governo iracheno dovesse cambiare idea e rivendicare la sovranità dell'Iraq sul suo petrolio ci saranno sempre i marines a ricordargli i suoi doveri. Per questo si tratta di un accordo che difficilmente sarà accettato dal popolo iracheno. Gli accordi di Psa lasciano si la proprietà dei giacimenti al paese ospitante ma assegnano gran parte dei profitti alle società che hanno investito nelle infrastrutture e nella gestione dei pozzi, degli oleodotti e delle raffinerie e per questa ragione la nuova legge irachena sarebbe la prima di questo tipo mai adottata da un grande paese produttore di petrolio della regione. Senza contare che nel caso di controversie tra lo Stato iracheno e le società petrolifere, la sovranità irachena non avrà alcun valore e le parti dovranno ricorrere ad un arbitrato internazionale. Le società petrolifere, secondo il documento ottenuto dall'Indipendent, inoltre potranno esportare liberamente i loro profitti senza alcuna condizione e nel farlo non saranno soggette ad alcuna tassa. Sia l'Arabia saudita che l'Iran - così come l'Iraq dal 1972 ad oggi - controllano invece entrambi il settore con società statali nelle quali non vi è alcuno spazio per le compagnie straniere, così come la gran parte dei paesi che aderiscono all'Opec. Le legge costituirebbe quindi una sorta di pericoloso precedente per l'Organizzazione dei paesi esportatori da sempre nel mirino dei «neocon» secondo i quali la guerra e l'occupazione dell'Iraq sarebbero dovute servire per disgregare i paesi arabi, prima l'Iraq, poi la Siria e infine l'Arabia Saudita e quelli musulmani come l'Iran, sia per lasciare campo libero ad Israele sia per assestare un colpo definitivo all'Opec. E proprio a tal fine la costituzione provvisoria dell'Iraq, scritta dagli esperti Usa, apre la strada alla divisione del paese in tre «patrie etniche», una curda, l'altra sunnita e la terza sciita, che gestiranno autonomamente lo sfruttamento dei nuovi pozzi petroliferi lasciando al governo centrale solamente una percentuale dei proventi derivanti dai giacimenti già in via di sfruttamento. Ciò significherà non solo un permanente conflitto tra le tre entità, ciascuna facilmente ricattabile dalle multinazionali, ma costituirà anche la fine di un ruolo preminente del governo centrale e quindi di qualsiasi forma di «Welfare» e di intervento dello stato nell'economia.
La legge che legalizza la rapina delle risorse irachene non è stata redatta, come si potrebbe pensare dal governo iracheno ma dalla BearingPoint, una società Usa assoldata dal governo americano per «consigliare» le autorità di Baghdad con un proprio rappresentante fisso presso l'ambasciata Usa nella «zona verde». Nel giugno del 2003 la BearingPoint ricevette un contratto per «facilitare la ripresa economica irachena» al quale si aggiunsero una serie di compiti assai delicati: Redigere il budget iracheno, Riscrivere la legge sugli investimenti, organizzare la raccolta delle tasse, redigere le nuove regole liberiste per il commercio e le dogane, privatizzare le imprese irachene, porre fine alla distribuzione di generi alimentari a prezzi politici, creare una nuova valuta e fissare i tassi di cambio. Una volta perfezionata, la legge sul petrolio è stata presentata al governo Usa, alle società petrolifere e, a settembre, al Fondo Monetario Internazionale. Molti deputati iracheni ancora ne sono all'oscuro.

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