«Parlare di missione di pace è ipocrisia»
Al generale Fabio Mini, ex comandante della Nato, abbiamo rivolte alcune domande sulla dichiarazione già rilasciata ieri a «Peace Reporter»: «Restare in Afghanistan significa fare la nostra parte da 'pari e non da paria' condividendo strategie e operazioni, dando uomini e mezzi che servono per fare ciò che viene stabilito dall'Alleanza. ma possiamo anche decidere di andarcene..».
Allora, se decidessimo di andarcene sarebbe davvero ignominioso?
No, purchè le motivazioni non siano speciose e le decisioni siano assunte nei tempi e nei modi previsti. Nella Nato nessuno si stupisce se un paese prende decisioni diverse o se intende contribuire alle missioni in modo diverso dagli altri. Bisogna però che le opinioni e le decisioni diverse siano rappresentate a tempo debito e in maniera inequivocabile. Occorre coordinare i contributi e farli diventare una strategia unitaria. La cosa che la Nato non apprezza è l'ambiguità, le promesse non mantenute, gli impegni assunti già con l'intenzione di non mantenerli e, soprattutto, l'atteggiamento ondivago che mina la credibilità e la coesione dell'alleanza. La chiarezza e l'onestà devono però essere reciproche. Anche la Nato è tenuta a dichiarare esplicitamente cosa intende ottenere con le operazioni militari e civili, fino a quando devono durare e come uscirne. La pecca più grave della politica della Nato di questi ultimi anni è proprio quella di far partire le operazioni senza «end state», senza compiti chiari e senza limiti di tempo e piani di uscita. In Afghanistan c'è stata anche l'ambiguità del ruolo. La Nato si è inserita in una operazione che l'Onu aveva affidato ad una coalizione. Ha iniziato come elemento di supporto ed ha finito per assumere la leadership di un'operazione completamente diversa da quella iniziata. Anche questo non deve meravigliare, ma i singoli paesi che oggi dicono di non condividere le scelte avrebbero dovuto essere più coscienti dei cambiamenti e delle conseguenze quando esse venivano decise.
Non le sembra che con la nuova missione Isaf che di fatto mette i nostri soldati nella catena di comando del Pentagono, siamo stati coinvolti in un allargamento di compiti e in una nuova fase militare della missione che non possiamo condividere, anche ricordando l'art. 11 della nostra Costituzione?
C'è stato un reale ampliamento della missione in termini di compiti, di natura e area dell'intervento. Si può ammettere che la missione precedente, basata soltanto sul supporto al governo transitorio nell'area di Kabul, non fosse adeguata alle circostanze. Si può anche ammettere le mutate esigenze operative in relazione alla recrudescenza della ribellione talibana. Tuttavia è indubbio che la convergenza della missione di Isaf con quella di Enduring Freedom abbia fatto scattare dei dubbi di legittimità non solo per ciò che sancisce la nostra Costituzione, ma anche per i principi della Nato e per quelli delle Nazioni Unite. La guerra ai Taliban non è metaforica come la guerra del merluzzo o del vino. E non è più neppure un episodio della guerra al terrorismo anche se è iniziata proprio per questo. Lo scopo della guerra, inizialmente incentrato sulla distruzione delle basi terroristiche, si è trasformato in quello di abbattimento di un regime. Ora la guerra continua contro gli stessi sostenitori o appartenenti a quel regime. La Nato oggi partecipa attivamente a questa guerra. Farla passare per un'operazione di pace è veramente un'ipocrisia. Ma anche far passare tutti gli avversari come affiliati di Al Qaeda o come terroristi è scorretto. I comandanti inglesi sul campo hanno già dichiarato che stanno vivendo situazioni di guerra impensabili contro avversari tutt'altro che semplici terroristi o suicidi invasati. E' la stessa valutazione che davano i sovietici ai tempi dell'occupazione iniziata, anche quella, per abbattere un regime. Convengo anche sulla valutazione che di fatto la catena di comando risale al Pentagono. Non è così dal punto di vista formale, ma è molto vicino alla realtà dal punto di vista sostanziale. Però la differenza tra forma e sostanza è fondamentale: se fossimo effettivamente nella catena di comando del Pentagono non potremmo mai obiettare. Essendo invece nella catena di comando della Nato abbiamo la facoltà di rappresentare le nostre ragioni. Non è poco. I problemi, perciò, non possono essere imputabili agli Stati Uniti. Gli americani fanno il proprio mestiere. Il problema è senz'altro nostro che non interveniamo nelle sedi opportune per stabilire le nostre condizioni.
Di fronte ai nuovi attacchi come quelli e ai tanti raid aerei che colpiscono la popolazione civile, si parla lo stesso di «riduzione delle vittime civili» e di intervento umanitario. Come stanno realmente le cose visto che tutti i morti afghani vengono catalogati come «talebani» o «terroristi»?
Se ammettiamo di essere in guerra dobbiamo anche ammettere che la prima vittima di ogni guerra è la Verità. Se invece non lo ammettiamo siamo soggetti alle ipocrisie e ai giri di parole per giustificare qualcosa che non abbiamo il coraggio di definire.
Quanto a decisioni contro la nostra sovranità, cosa pensa dell'allargamento della base di Vicenza? Che - a proposito dei terroristi accusati spesso di farsi «scudo dei civili» - si troverebbe nel centro della città. E dove dovrebbe essere allocato un raggrupamento militare Usa di pronto impiego per la strategia della Casa bianca...
Anche qui vedo una grande ipocrisia nel senso opposto. E' da mezzo secolo che la Setaf sta in Italia e a Vicenza, in mezzo alla città. L'ampliamento della base non aumenta i rischi precedenti e parlare di una forza alleata come di terroristi che si fanno scudo di civili è veramente svilire la questione a pura ideologia e propaganda. I problemi di Vicenza (e di tutte le altre basi) non sono per l'ampliamento, ma per la sostanza dei nostri rapporti con gli Stati Uniti. Confondiamo l'amicizia indiscutibile fra i nostri popoli con le questioni di sovranità, rispetto e impegni da mantenere o rivedere. Se non discutiamo di questo perdiamo di vista la sostanza e facciamo soltanto chiacchiere infiocchettate di slogan che contribuiscono a screditare chi le fa e a mantenere il problema nell'ambiguità.
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