«E pensare che lo chiamano nuovo Iraq»
Tra le prime organizzazioni per i diritti umani che si sono mobilitate per fermare l'esecuzione, prevista come imminente, per quattro donne irachene vi è Amnesty international. Abbiamo sentito Massimo Persotti del Coordinamento contro la pena di morte di Amnesty.
Per la prima volta arrivano dettagli su condanne a morte di donne in Iraq, voi siete a conoscenza di altri casi?
Non sappiamo molto di più. Amnesty sa che nel 2006 ci sono state almeno 65 esecuzioni tra uomini e donne, però non abbiamo suddivisioni. Anche perché spesso le notizie arrivano centellinate e si viene a conoscenza di casi in modo sporadico. Quindi è difficile avere una statistica precisa.
Invece la notizia delle quattro donne è arrivata prima dell'impiccagione...Fortunatamente. Si tratta di casi diversi tra loro che hanno però lo stesso minimo comun denominatore: l'imminente pericolo di esecuzione. Per questo Amnesty si è attivata immediatamente a livello internazionale.
Per le tre donne condannate per azioni di resistenza non è stato nemmeno concessa la presenza di un avvocato. Dal punto di vista del diritto internazionale non dovrebbero essere considerate prigioniere di guerra?Per quanto riguarda l'aspetto della difesa purtroppo è un fatto ricorrente, il caso di Saddam Hussein l'ha dimostrato. In questo momento in Iraq il livello di garanzia e di rispetto degli standard internazionali per quanto riguarda la difesa legale è poco garantito. Immagino poi che nel caso di imputate donne la situzione possa essere ancora aggravata. Quello che percepiamo estendo il discorso anche alle aree confinanti dove è più facile avere informazione di donne processate o condannate per atti che prevedono la pena di morte, questa si basa più sulla interpretazione della sharia che per la donna è ancora più penalizzante. Di contro notiamo, che negli stessi paesi, vi è un grosso fermento tra le donne per dare un segnale di ribellione. Questo è un segnale importante.
Il paradosso è che prima l'Iraq era uno stato laico e le donne non avevano limitazioni imposti dalla sharia. Caduto Saddam non solo non c'è un miglioramento delle condizioni di vita ma un peggioramento.
Noi, che combattiamo la pena di morte, ci auguravamo che con la caduta di Saddam il nuovo stato iracheno potesse mettere uno stop alla pena di morte e invece è stata subito reintrodotta e oggi ha un tasso di applicazione molto elevato.
Quindi non si può parlare di un processo di democratizzazione...
Le cifre dei tempi di Saddam Hussein tra morti, sparizioni, esecuzione extragiudiziarie erano spaventose. Amnesty si è sempre battuta, anche se inascoltata. Certo è che dal passaggio da regime dispotico alla prospettiva di un paese libero ci si aspettava che almeno sulla pena di morte si potesse registrare un passo positivo. La speranza è durata poco, il nuovo Iraq ha rispristinato la pena di morte e gli standard di difesa non sono garantiti. Il caso di Saddam Hussein è stato il più lampante, ma ci sono molti altri Saddam Hussein sconosciuti.
Cosa si può fare per fermare il boia?
Quello che si può fare immediatamente aderire all'appello di Amnesty (sul sito) che è l'arma che in molti casi si è mostrata efficace e speriamo lo sia anche nel caso delle quattro donne irachene.
Sa quante firme sono già state raccolte?
In genere si sa solo alla fine, ma trattandosi di donne c'è sempre una grande sensibilità. E poi il caso di quattro donne in un paese già devastato qual è l'Iraq suscita particolare attenzione.
A chi è rivolto l'appello?
Alle autorità irachene perché formalmente è nelle mani della giustizia irachen la sorte di queste quattro donne, anche se ciascuno può avere perplessità sui poteri in vigore in Iraq.
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