Conflitti

Intervista di Michael Albert a Noam Chomsky

Iraq: ieri, oggi e domani

Perché gli USA hanno invaso l'Iraq? Qual è stato l'impatto del movimento contro la guerra sulla politica e sui suoi pianificatori?
26 febbraio 2007
N. Chomsky e M. Albert
Tradotto da per PeaceLink
Fonte: www.zmag.org - 27 dicembre 2006

1. Perché gli USA hanno invaso l'Iraq? E quali sono le ragioni di opposizione da parte di personalità dell'elite come Scowcroft? Quali sono le motivazioni che spingono gli USA a rimanere?

La ragione ufficiale è quella che Bush, Powell e altri hanno ridotto alla Questione Unica: "Saddam sospenderà lo sviluppo di armi di distruzione di massa"? Il Direttivo Presidenziale riporta l'obiettivo principale in questi termini: "Liberare l'Iraq per eliminare le armi di distruzione di massa irachene, i canali di distribuzione e i programmi annessi, impedire all'Iraq di svincolarsi dal 'contenimento' e diventare una minaccia ancora più pericolosa per la regione e i suoi dintorni". Questa è stata la base per ottenere l'appoggio del Congresso all'invasione. Il Direttivo prosegue con il riferimento al "tagliare i ponti iracheni e le sponsorizzazioni in favore del terrorismo internazionale" ecc. Un certo numero di frasi sono rimasticate dal minestrone precotto della "libertà", universale storico di scorta che accompagna ogni intervento, talvolta svuotato di valore anche da persone ragionevoli, tal altra ripescato alla bisogna proprio dalla dottrina ufficiale.

Quando la Questione Unica ha avuto la Risposta Sbagliata e le pretese sul Terrorismo Internazionale hanno iniziato a generare dichiarazioni troppo imbarazzanti da ripetere (per quanto non per Cheney e qualche altro) l'obiettivo è stato sostituito dalla "Promozione della Democrazia". Tutta la Scolastica dei Media si è subito lasciata trasportare dalla nuova corrente, tutti sollevati dalla scoperta che questa fosse la più Nobile Guerra della storia, tutti a correr dietro alla Missione Salvatrice di Bush per portare la libertà e la democrazia nel mondo. Un sondaggio a Bagdad ha contato un 1% di Iracheni che si trovavano d'accordo appena la nobile visione era stata annunciata a Washington. In Occidente, da parte sua, non conta se c'è una montagna di evidenze a confutare questa pretesa – a parte la tempistica, che basterebbe a rivelare il ridicolo - la Missione è a tutti gli effetti quella che il nostro Caro Leader ha dichiarato. Ho passato in rassegna questa disgraziata versione ovunque e senza sosta fino ad oggi, così a lungo che ho lasciato perdere l'inutile collezione di assurde ripetizioni di un dogma.

La vera ragione per l'invasione, di certo, è che l'Iraq possiede il secondo giacimento di petrolio più esteso del mondo, conveniente da sfruttare e proprio nel cuore di quelle riserve mondiali di idrocarburi che il Dipartimento di Stato già sessantanni fa descriveva come "stupenda sorgente di potere strategico". Il punto non è l'accesso ma piuttosto il controllo (e il profitto per le multinazionali dell'energia). Il controllo di queste risorse, prendendo in prestito l'espressione di Zbigniew Brezinski, determina il "potere critico di leva" statunitense nei confronti delle industrie avversarie, ciò che fa eco a George Kennan il quale riconosceva, quand'era a capo della pianificazione, un "potere di veto" sugli altri procurato agli USA da questo controllo. Dick Cheney ha osservato che il controllo delle risorse energetiche fornisce in mano altrui "mezzi di intimidazione ed estorsione", mentre siamo troppo onesti e virtuosi per applicare queste considerazioni a noi stessi come dicono i sostenitori più accesi - o, più precisamente, lo presuppongono soltanto, partendo dall'idea che sia fin troppo ovvio da dire.

Sono state sollevate nella cerchia dell'elite politica condanne senza precedenti contro i piani di invasione dell'Iraq, dagli articoli delle maggiori testate politiche straniere alla pubblicazione dell'Accademia Americana delle Arti e delle Scienze, ed altro ancora. Fini analisti sembravano in grado di calcolare che l'impresa avrebbe comportato significativi rischi per gli interessi statunitensi comunque concepiti. L'opposizione generale era pressochè schiacciante, i costi probabili per gli USA manifesti, per quanto la catastrofe prodotta dall'invasione sia andata ben oltre le peggiori aspettative. E' buffo vedere i più accesi sostenitori della guerra mentire nel tentativo di negare ciò che essi stessi così chiaramente affermavano. Si può vedere un buon esempio di "mendacità" degli intellettuali Neocon (Ledeen, Krauthammer ed altri) sul numero di gennaio 07 di "The American Conservative". Ma non sono i soli.

Sulle ragioni di permanenza degli USA posso solo ripetere quel che ho scritto per anni. Una sovranità irachena parzialmente democratizzata potrebbe essere disastrosa per i piani USA. Una maggioranza sciita porterebbe a un probabile miglioramento delle relazioni con l'Iran. C'è un numeroso gruppo sciita amaramente oppresso dalla tirannia americana proprio sul confine con l'Arabia Saudita. Ogni passo in direzione della sovranità irachena incoraggia l'attivismo per i diritti umani e per un livello crescente di autonomia – il che accadrebbe proprio dove c'è la maggior parte del petrolio saudita. La sovranità irachena potrebbe portare a perdere l'alleanza con gli Sciiti che controllano le maggiori risorse di idrocarburi indipendenti dagli USA, minando alla base l'obiettivo primario della politica estera americana da quando è divenuta la maggiore potenza mondiale nel Dopoguerra. Peggio ancora: sebbene gli USA possano intimidire l'Europa, è chiaro che non possono fare la stessa cosa con la Cina, la quale sconsideratamente va per la sua strada anche in Arabia Saudita – il che è il motivo di fondo per cui la Cina è considerata minaccia primaria. Un blocco energetico indipendente nell'area del Golfo può verosimilmente emergere tramite il Shanghai Cooperation Council e l' Asian Energy Security Grid basato sulla Cina, con la Russia (dotata delle proprie ingenti risorse) come partner, insieme agli stati dell'Asia Centrale (già membri), possibilmente con l'India. L'Iran si è già associato e i blocchi a dominanza sciita negli stati arabi potrebbero tenergli dietro. Tutto ciò sarebbe un incubo per i pianificatori americani e per i loro alleati occidentali.

Ci sono, quindi, motivazioni di fondo per le forze britanniche e statunitensi per tentare ogni possibile via per mantenere un effettivo controllo dell'Iraq. Gli USA non stanno edificando una suntuosa Ambasciata, di gran lunga la più grande del mondo, città virtualmente separata entro la stessa Bagdad, né stanno riversando denaro nelle basi militari, con l'intenzione di lasciare l'Iraq agli Iracheni! Tutto ciò è abbastanza lontano dalle aspettative per affari predisposti perché le imprese americane beneficino delle grandi ricchezze dell'Iraq.

Questi punti, di certo in prima vista nell'agenda dei pianificatori, non sembrano entrare nel dominio del discorso. Si può soltanto presumere siano noti. Simili considerazioni violano la dottrina ufficiale secondo la quale il potere statale ha nobili scopi e, mentre può commettere terribili errori, non può avere grossolani moventi né può essere influenzato dalla concentrazione interna di potere privato. Qualunque discussione intorno a queste Somme Verità viene ignorata per la semplice ragione che il solo consentire tale dubbio minerebbe alla base potere e privilegi. Io non credo, per inciso, che gli opinionisti abbiano grande consapevolezza di ciò. Nella nostra società l'elite intellettuale è profondamente indottrinata, un punto che Orwell già notava nella sua inedita introduzione alla Fattoria degli Animali intorno al funzionamento dell'autocensura nelle Società Libere. Il punto – come egli plausibilmente concludeva – è laddove la "buona educazione" instilla l'idea che vi siano cose che non si devono dire o, più precisamente, neppure pensare.

2. Nella prospettiva dell'elite cosa costituirebbe la massima vittoria in Iraq, che cosa un modesto ma accettabile successo oppure una sconfitta? E ancora, per completezza, quanto fanno parte delle motivazioni per la politica estera USA la questione della democrazia irachena, o la democrazia USA stessa, o il benessere della popolazione in Iraq nonché della popolazione americana – soldati compresi?

La massima vittoria sarebbe la creazione di uno stato satellite obbediente come in ogni altra parte del mondo. Un successo modesto sarebbe riuscire a ostacolare in qualche misura quella sovranità che potrebbe consentire all'Iraq di seguire quel decorso abbastanza naturale che ho appena descritto. Per quanto riguarda la democrazia, anche il più affezionato degli avvocati scolari della "promozione della democrazia" riconosce che c'è da molto tempo a questa parte una "evidente linea di continuità" nelle iniziative americane di democratizzazione: si sostiene questo sistema se e solo se è conforme agli obiettivi economici e strategici, al punto che ogni presidente appare "schizofrenico", un vero mistero per Thomas Carothers. E' così lampante che ci vuole davvero un pesante indottrinamento per perderlo di vista. E' un tipico marchio distintivo della cultura americana (in effetti dell'Occidente) quello dell'intellettuale in grado di profondersi in elogi del nostro splendido attaccamento alla democrazia al contempo palesando disprezzo e ostilità per la medesima. Ad esempio, supportando la brutale punizione di chi ha commesso il crimine di aver "votato nel modo sbagliato" in una libera elezione, come recentemente in Palestina, sulla base di pretesti che suonerebbero ridicoli in qualunque società libera. Riguardo la democrazia in America, l'opinione dell'elite è che sia generalmente considerata una specie di minaccia cui si deve resistere. La preoccupazione, per quanto non al primissimo posto, è per il benessere dei soldati americani, mentre per quello della popolazione locale basta dare un'occhiata alla politica interna. Naturalmente, queste faccende non possono venire completamente ignorate finanche nelle dittature totalitarie, sicuramente non nelle società in cui le lotte civili hanno raggiunto un considerevole grado di libertà.

3. Perché l'occupazione è stata così un disastro sempre nella prospettiva dell'elite? Più truppe avrebbero aiutato almeno inizialmente? E' stato un errore licenziare l'esercito e ordinare la de-Baathificazione? Se sì, cosa ha portato a commetterli? Perché le richieste di ritiro provengono tanto da una leale opposizione antimilitarista quanto dall'elite secondo agende autonome? Queste ultime sono mera retorica o sussistono differenze reali?

Sulle ragioni del disastro, vi è un certo numero di commenti dell'elite che traccia paragoni con la storia. E' bene tenere fermo che i Nazisti ebbero molti meno problemi a far girare l'Europa occupata – con civili in gran parte in cariche amministrative e nella sicurezza – di quelli americani in Iraq. E la Germania era in guerra. Lo stesso si può dire per i Russi nell'Europa dell'Est e vi sono molti altri esempi, anche nella storia degli USA. Come ora viene generalmente concesso, la ragione primaria della disfatta va cercata in quello che, giusto pochi mesi dopo l'invasione, mi fu detto e scritto da una personalità di alto rango delle organizzazioni di punta, dotata di vasta esperienza nei luoghi più tremendi del mondo. Questi era appena tornato dai fallimentari tentativi di "ricostruzione" a Bagdad e mi disse che non aveva mai visto una pari ostentazione di "arroganza, incompetenza e ignoranza". Certi specifici pasticci sono argomento centrale di una vasta letteratura. Io non ho niente di particolare da aggiungervi e francamente il tema non mi interessa granché, non più di quanto mi interessino gli errori tattici dei Russi in Afghanistan o quelli di Hitler nel combattere un conflitto a due fronti, e così via.

Circa le proposte di ritiro da parte dell'elite io penso che si debba andare cauti. Alcuni possono essere così profondamente indottrinati da non permettere a sé stessi in un modo o nell'altro di pensare alle ragioni dell'invasione o all'insistenza nel mantenere l'occupazione. Certi altri potrebbero avere in mente tecniche alternative di controllo mediante diversa dislocazione delle forze militari nelle basi irachene e nell'intera regione, assicurandosi di avere il controllo logistico e il sostegno delle forze alleate o magari una potenza aerea nello stile della distruzione di gran parte dell'Indocina dopo che il consorzio finanziario si rivoltò contro la guerra, e così via.

4. Qual è stato l'impatto del movimento contro la guerra sulla politica e sui suoi pianificatori? Le scelte dell'elite dominante sarebbero state differenti senza l'attivismo antimilitarista? Paragonata all'epoca del Vietnam questa guerra sembra mettere in gioco molto di più, eppure il sostegno dell'elite sta barcollando più rapidamente e più profondamente di allora. L'opposizione oggi sembra meno appassionata e militante sebbene considerevolmente più estesa in ampiezza. Qual è la sua opinione in merito?

E' difficile dare un giudizio fondato dell'impatto sulla politica. Nel caso dell'Indocina ci sono documentazioni interne; non ci sono per l'Iraq, così il giudizio resta molto più soggettivo.

Per il resto, io penso che si debba andare cauti nel paragonare le due guerre. Hanno caratteristiche differenti partendo da condizioni che sono cambiate del tutto. Le guerre di Indocina esplosero subito dopo la Seconda Guerra Mondiale allorché l'amministrazione Truman decise di sostenere gli sforzi francesi di riconquista delle precedenti colonie. Gli USA ostacolarono allora un insediamento diplomatico e posero le basi per uno Stato satellite corrotto nel Vietnam del Sud, il che condusse a una resistenza che non si seppe controllare neppure dopo l'uccisione di decine di migliaia di persone. Nel 1961 l'amministrazione JFK decise di attaccare direttamente. In pochi anni il Sud del Vietnam fu devastato e nel 1965 l'amministrazione LBJ estese il conflitto al Nord nella speranza che Hanoi avrebbe fatto pressione per far porre fine alla resistenza vietnamita nel sud spedendo anche centinaia di migliaia di truppe per occupare tutto il SVN. Per tutto questo lungo periodo non vi furono virtualmente proteste, furono così scarse che ben pochi sanno che Kennedy attaccò apertamente il SVN nel 1962. Ma la guerra era impopolare, al punto che gli uomini di Kennedy cercarono una via per ridurre la partecipazione statunitense, tuttavia soltanto – come Kennedy insistette fino alla fine – dopo la vittoria. Più tardi, nell'ottobre del 1965, la più grande manifestazione pubblica contro la guerra, nella Boston liberale, venne dispersa dai contro-manifestanti con il forte sostegno dei media liberali. Da allora la guerra contro il Vietnam proseguì molto oltre in estensione e violenza rispetto all'invasione dell'Iraq. Oggi l'Iraq è consumato dalla violenza, ma la situazione è radicalmente diversa dall'Indocina dove gli americani massacrarono tutta la popolazione che sosteneva la resistenza indigena nel Sud, come gli esperti sapevano molto bene e come riferivano talvolta anche pubblicamente. Molto tardivamente, dal 1967-68, si sviluppò un significativo movimento antimilitarista comprendente una resistenza diretta contro la guerra, ma vale la pena di ricordare quanto fu procrastinato e quanto più tremende furono rispetto a quelle in Iraq le operazioni statunitensi in Vietnam dal momento in cui esso crebbe. Perfino al suo apice, il movimento antimilitarista concentrava la sua opposizione contro i bombardamenti nel Nord, come anche il dissenso dell'elite si limitò a questi, in forza delle minacce avanzate nei confronti degli interessi e del potere USA da un'estensione a Nord del conflitto – dove risiedevano le ambasciate straniere, le navi russe nel porto di Haiphong, la ferrovia cinese che corre attraverso le regioni del Nord, il potente sistema di difesa aereo, e così via. La distruzione del SVN, da sempre l'obiettivo principale, passò con molte meno proteste e fu considerata relativamente meno costosa. Il governo riconobbe tutto ciò. Per fare un esempio, documenti interni rivelano che il bombardamento del Nord fu meticolosamente pianificato a causa dei costi temuti, mentre al contrario fu prestata solo una limitata cura ai ben più intensi bombardamenti del Sud che erano già stati rovinosi nel 1965 quando furono fortemente intensificati, e che nel 1967 portarono Bernard Fall, lo specialista più onorato dell'analisi militare, a chiedersi se la società sarebbe mai sopravvissuta come entità storica e culturale dopo l'assalto americano.

A differenza del Vietnam, si sono levate notevoli proteste contro l'invasione dell'Iraq già molto prima che questa fosse ufficialmente intrapresa e l'opposizione ha continuato a farsi sentire con più forza durante gli stadi corrispondenti all'invasione Usa del SVN.

Tornando alla posta in palio, i pretesti messi in piedi per la guerra di Indocina furono colossali: impedire alla cospirazione sino-sovietica di conquistare il mondo. L'insania dei programmatori americani fu straordinaria, dai "wise men" dell'amministrazione Truman agli anni di Eisenhower e ai "best and the brightest" di Camelot, in particolare riguardo alle immagini che misero in piedi della Cina, mutevoli a seconda delle circostanze. Sebbene molto sia risaputo, è apparso solo di recente il primo grande studio: "Washington's China: The National Security World" di James Peck. Non ho ancora visto recensioni. E' altamente rivelativo.

C'erano naturalmente anche sani elementi nelle stanze della pianificazione che riconoscevano interessi reali in gioco, quantunque non "Slavic Manchukuo" (Dean Rusk) o la "Cina rivoluzionaria" come parte della "spietata cospirazione monolitica" per conquistare il mondo (JFK). I documenti interni rivelano una costante preoccupazione per la versione razionale della "teoria del domino" – abbastanza diversa da quella scottante servita al pubblico, ma abbastanza razionale da essere ripetutamente invocata nei documenti della pianificazione interna. Il timore plausibile in questo caso era che un Vietnam indipendente potesse seguire un sentiero di sviluppo dell'autonomia che diventasse fonte di ispirazione per altre regioni. Poteva essere un "virus che diffonde il contagio" come nella retorica di Kissinger su Allende. Poteva portare il Giappone a conformarsi ad un Sud Est Asiatico indipendente e ad un'Asia Orientale come centro industriale e tecnologico, ricostruendo il Nuovo Ordine giapponese al di fuori del controllo americano (Kennan e altri pianificatori consideravano ciò favorevolmente purché avvenisse sotto il controllo USA). Si poteva intendere che gli Stati Uniti avessero a conti fatti perso la Fase del Pacifico della Seconda Guerra Mondiale. La "reazione naturale" era quella di fare piazza pulita del virus e inoculare le potenziali vittime con l'instaurazione di dittature maligne. Questo progetto fu realizzato con grandi risultati. E' per questo che più tardi McGeorge Bundy, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, considerò che gli USA avrebbero ben potuto ridurre gli sforzi bellici dal 1965, dopo il colpo di Suharto in Indonesia, il quale sollevò un'incontenibile euforia in seguito al massacro di centinaia di migliaia di persone, distrusse l'unica organizzazione politica di massa ed aprì il paese al saccheggio occidentale.

Senza andare oltre, la posta reale era significativa, e la vittoria statunitense tutt'altro che insostanziale; e i pretesti messi in piedi, apparentemente creduti, erano non solo significativi ma colossali. La scommessa in Iraq è anch'essa considerevole, ma non è chiaro per nulla se supera quella in Indocina. Ed è di gran lunga differente nelle sue caratteristiche. A dispetto di un po' di retorica gonfiata da Eisenhower ed altri, le risorse vietnamite erano di scarso interesse, mentre in Iraq sono un aspetto determinante. Gli USA potevano perseguire i loro maggiori obiettivi militari in Vietnam semplicemente distruggendolo; il che non vale in Iraq, che deve essere controllato e non distrutto. E mentre si parlava dell'effetto virus per il Vietnam non si è mai fatta questa considerazione per l'Iraq.

Osservando più da vicino il movimento antimilitarista nei due casi, come è già stato notato, io penso che sia stato davvero più forte nel caso iracheno che durante qualunque fase comparabile dei conflitti in Indocina. Inoltre, la nazione è cambiata molto in seguito alle lotte degli anni '60 ed alle loro conseguenze. Il movimento contro la guerra in Vietnam, quando giunse al suo apice, non si scompose nel ventaglio di interessi degli attivisti odierni. Posso rielaborare facilmente ciò restando nell'ambito della mia esperienza personale. Si pensi soltanto alle discussioni pubbliche. Alla fine degli anni '60 quasi tutte le rivendicazioni facevano riferimento alla guerra del Vietnam. Oggi, soltanto una frazione riguarda l'Iraq, e non perché non sia una questione rilevante, ma perché ci sono tanti altri punti vivi di interesse. La pioggia di stimoli su ogni sorta di tema che veniva scarsamente discusso 40 anni fa è più consistente in scala, il pubblico è più numeroso e più impegnato. E ci sono molti altri fattori che si possono accreditare all'attivismo, come l'enorme ammontare di energia confluita nel Movimento per la Verità del 9/11. Ci può essere un'impressione di minor attivismo antimilitarista rispetto al Vietnam, ma io credo che sia fuorviante – per quanto la protesta contro la guerra in Iraq sia molto al di sotto di quel che i crimini meriterebbero.

5. Quali politiche oggi sono a disposizione dei militaristi americani? Quali sono le opzioni plausibili che adotterebbero se avessero libera la strada? Il ritiro porterà ad una guerra civile ancora più disastrosa? O porterà alla vittoria dei Baathisti o dei fondamentalisti islamici? Quali potrebbero essere le conseguenze nei due casi? Se non ci sarà alcun ritiro, che sia forzato dall'opposizione o richiesto da esponenti dell'elite o da entrambi, quale politica pensa che verrà attuata?

Una delle opzioni a disposizione dei pianificatori è quella di accettare le responsabilità degli aggressori in generale: pagare per un massiccio risarcimento dei loro crimini – non "aiuti" ma proprio "risarcimenti" – e soddisfare la volontà delle vittime. Ma questi pensieri sono al di là di ogni immaginazione in società con mentalità imperialistica così profondamente radicate insieme ad una classe intellettuale altamente indottrinata.

Il governo e gli opinionisti conoscono abbastanza poco di questi desideri come risulta da frequenti sondaggi da parte delle agenzie occidentali e americane. I dati sono più che indicativi. A tuttora, i 2/3 della popolazione di Bagdad è per il ritiro immediato delle truppe USA, e circa il 70% degli Iracheni chiede un piano certo per il ritiro, per la maggior parte entro un anno o meno, con percentuali molto più alte nell'Iraq arabo dove le truppe sono attualmente dislocate. L'80%, incluse le aree curde, è dell'idea che la presenza USA incrementi le violenze, e più o meno la stessa percentuale crede che gli americani intendano mantenere basi militari permanenti. Questi numeri sono regolarmente in crescita.

Di norma il punto di vista iracheno viene quasi totalmente ignorato. I piani attuali sono per un incremento della presenza delle forze americane a Bagdad dove la maggioranza della popolazione chiede che le stesse se ne vadano. Il rapporto Baker-Hamilton non menzionava le opinioni degli Iracheni circa il ritiro. Non è che mancasse ogni informazione; essi citavano gli stessi sondaggi intorno a questioni di specifico interesse per Washington come il sostegno agli attacchi contro i soldati USA (considerati legittimi dal 60% degli Iracheni), per arrivare a raccomandazioni circa un mutamento tattico. Parimenti, vengono ritenute di scarso valore le opinioni degli Americani, non solo sull'Iraq ma anche sull'incombente crisi con l'Iran. Il 75% degli Americani (compreso un 58% di Repubblicani) è favorevole ad un miglioramento delle relazioni con l'Iran al posto delle minacce. Questi dati di fatto entrano relativamente nelle considerazioni e nei commenti politici, proprio come la politica stessa non è mai stata intaccata dalla larga maggioranza che gradisce relazioni diplomatiche con Cuba. L'opinione dell'elite è profondamente antidemocratica, sebbene sovrabbondi della nobile retorica dell'amore per la democrazia e delle missioni per la sua promozione. Nulla di nuovo o sorprendente in ciò, né di limitato agli USA.

Per quanto riguarda le conseguenze del ritiro americano, abbiamo titolo ad avere i nostri giudizi personali, tutti basati sulla disinformazione e sui dubbi che ha la stessa intelligence americana. Ma ciò non conta, quel che conta davvero è ciò che pensano gli Iracheni. O meglio, questo è quel che dovrebbe contare, e abbiamo molto da imparare circa lo spessore morale della cultura intellettuale dominante dal fatto che molto raramente emerge la questione della volontà espressa dalle vittime.

6. Cosa ne pensa delle conseguenze più probabili di varie proposte che sono state avanzate come: (a) le raccomandazioni del comitato Baker-Hamilton; (b) la proposta di Peter Galbraith, Biden e Gelb circa la suddivisione dell'Iraq in tre stati distinti?

Le raccomandazioni di Baker-Hamilton sono in parte una mera lista dei desideri: Non sarebbe carino se Iran e Siria ci venissero in aiuto? Ognuna di queste raccomandazioni è così limitata da essere quasi priva di significato. Così, le truppe da combattimento dovrebbero essere ridotte, a meno che siano necessarie per la protezione dei soldati americani – per esempio quelli in forza ad unità irachene dove molti li considerano bersagli di attacchi legittimi. Imboscate nel report ci sono le prevedibili raccomandazioni per le imprese (s'indende in prevalenza inglesi e americane) per il controllo delle risorse energetiche. Su queste non si sollevano discussioni forse perché sono ritenute inadatte ad essere presentate all'attenzione pubblica. Qualche sparuta parola raccomanda che il Presidente annunci che non intendiamo stabilire una presenza militare permanente, tuttavia senza un richiamo al termine delle costruzioni. E via dicendo così per il resto. Il report tralascia la proposta di suddivisione, così come anche le proposte più limitate a un più alto livello di indipendenza all'interno di una struttura vagamente federale. Sebbene non siano davvero affari nostri, né nostro diritto decidere, il loro scetticismo è probabilmente garantito. I paesi circostanti sarebbero apertamente ostili ad un Kurdistan indipendente, che è senza sbocco sul mare, e la Turchia potrebbe decidere di invaderlo, il che metterebbe a repentaglio la duratura e critica alleanza tra USA, Turchia e Israele. I Curdi ambiscono fortemente all'indipendenza, ma sembrano considerarla non fattibile almeno per ora. Gli Stati a maggioranza sunnita potrebbero invadere le aree sunnite che mancano di risorse di difesa. La regione Shia potrebbe stringere un legame più stretto con l'Iran. Dal mio punto di vista una sistemazione di tipo federale sembra di buon senso e non solo in Iraq. Ma questo non sembra uno scenario realistico per il futuro più prossimo.

7. Per contro, quale politica pensa che dovrebbe essere attuata? Supponendo un sincero interesse per la democrazia e per le popolazioni indigenti, e supponendo che diritto e giustizia entrino nei processi deliberativi, che la volontà dell'opposizione antimilitarista possa dettare i propri termini, cosa potrebbero essere forzati a fare gli autori della politica USA?

La risposta mi sembra debba essere schietta. La politica dovrebbe essere quella di tutti gli aggressori: (1) pagare un risarcimento, (2) venire incontro alla volontà delle vittime; (3) assumersi le responsabilità della parte colpevole, in accordo con i principi di Norimberga, con la carta dell'ONU e con gli altri strumenti del diritto internazionale, compreso il War Crimes Act statunitense (1996) prima che fosse delegittimato dal Military Commission Act (2006), una delle pagine più vergognose della storia della legislazione americana. La dimensione delle interazioni umane non segue leggi deterministiche, ma ci sono linee guida sensibili. Una proposta più pragmatica sarebbe quella di lavorare per cambiare abbastanza sostanzialmente la comunità locale e la sua cultura da fare in modo che quel che dovrebbe essere fatto possa diventare almeno oggetto di discussione. Il che è un compito enorme, benché io creda che la resistenza inerziale dell'elite sia molto più dura di quella dell'opinione pubblica.

Note: Link al testo originale in inglese:
http://www.zmag.org/content/print_article.cfm?itemID=11718§ionID=15

Traduzione di Marco Gimmelli per www.peacelink.it
Il testo è liberamente utilizzabile per scopi non commerciali citando la fonte, l'autore e il traduttore.

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