Arriva all'Onu il piano Ahtisaari e sul Kosovo è subito scontro
Lunedì il mediatore Martti Ahtisaari ha consegnato al Consiglio di sicurezza dell'Onu il piano che di fatto propone, con una prima fase di controllo internazionale, l'indipendenza del Kosovo, la provincia ancora formalmente serba. Era annunciato, fin dal momento in cui gli era stata affidata la «mediazione» - strana, per uno che è a favore dell'indipendenza. Nonostante il fallimento dei colloqui diretti tra Belgrado e Pristina e l'aperta contarietà della Serbia, gli Stati uniti e l'Unione europea, non hanno deflettuto, riproponendosi nel ruolo nefasto di chi ha partecipato alla guerra balcanica con le concessioni delle indipendenze proclamate su base etnica - Slovenia e Croazia - già nel 1991. E ora si avvia a confermare una nuova indipendenza su base etnica, quella albanese del Kosovo. Aveva un bel dire il governo italiano che bisognava «uscire dagli schemi» per insistere sul compromesso e non imporre l'indipendenza alla Serbia. Ora, con il rifinanziamento delle missioni militari all'estero, ha un nuovo ruolo il contingente italiano Kfor-Nato: prima siamo entrati in armi secondo gli accordi di pace, poi abbiamo assistito alla contropulizia etnica arrivando anche a proteggere i monumenti ortodossi e le poche enclave serbe rimaste, infine in armi faremo le sentinelle dell'indipendenza etnica albanese. I giochi, pericolosi sembrano fatti, mentre tutto finisce nelle mani di Putin, Bush e della Ue che da tempo ha delegato alla Nato la politica estera.
A Belgrado la leadership serba è unita nel dire no. Il filoccidentale presidente Boris Tadic ha detto al sottosegretario Usa Nicholas Burns di essere «energicamente contrario» al sostegno degli Stati Uniti all'indipendenza proposta da Ahtisaari; l'ex premier, il nazionalista moderato Vojslav Kostunica si rivolge alla Russia chiedendo il suo veto perché «tolgono alla Serbia, un paese riconosciuto all'Onu, il 15% del suo territorio» considerato da tutti i serbi come la culla «irrinunciabile» della loro storia, dice ora anche la costituzione. E Mosca entra in scena. Il ministro degli esteri russo, Serghei Lavrov, insiste «per il rispetto degli interessi di tutte le parti in causa, per consolidare la stabilità e non per minarla. Sia in Kosovo che in Bosnia-Erzegovina» e ammonisce: «Nel Consiglio di sicurezza la Russia non resterà passiva. la discussione riguarderà l'attuazione della risoluzione 1244», ricordando la risoluzione che fece propri gli accordi Kumanovo che permettevano sì l'ingresso della Nato in Kosovo ma anche la restituzione alla Serbia sei anni dopo.
Ecco alla fine il risultato della guerra «umanitaria» di 78 giorni di raid aerei nel 1999, l'ambigua uscita della missione Osce dal Kosovo (dove mediava tra esercito di Belgrado e Uck) per colpa della messainscena della strage di Racak, la truffa dei diktat di Rambouillet. Milosevic non c'è più, ma alla Serbia è stata proposta solo e soltanto l'indipendenza di una parte del suo territorio. Rivelando che la guerra Nato giustificata per scopi umanitari, aveva in realtà l'obiettivo di una secessione etnica. Un bel precedente, per la malcerta Bosnia Erzegovina con i serbi - perché no a questo punto? - pronti a far secessione anche loro, per la crisi in Macedonia sospesa alle scelte dei partiti albanesi, per le indipendenze nel Caucaso, in Europa e nel mondo.
La leadership kosovaro-albanese è entusiasta. Ma impresentabile. La Lega democratica che fu di Ibrahim Rugova è in frantumi; al premier Agim Ceku hanno arrestato per traffico di valuta il suo principale consigliere; Ramush Haradinaj che, prima di morire, Ibrahim Rugova aveva nomimato premier nelle stesse ore in cui veniva accusato all'Aja per crimini contro l'umanità, viene definito «gangster in divisa» al nuovo processo da Carla Del Ponte che ha elencato i 37 capi d'imputazione che pendono contro di lui. Regnano i clan in Kosovo, della droga, dei trafici di armi e dei ricchi aiuti internazionali. Purtuttavia chiedono l'indipendenza. L'hanno fatto ricattando con la violenza in questi sette anni di contropulizia etnica, con 200mila serbi in fuga nel terrore e altrettanti rom, 1800 persone uccise, serbi, rom e albanesi moderati, con altrettanti desaparesidos, con 150 monasteri ortodossi distrutti. Ora il Kosovo è una mina pronta a esplodere. Boris Tadic dice che non muoverà mai l'esercito. Ma a Belgrado è ancora in ballo il nodo del governo e le elezioni di fine anno sono state vinte dagli ultranazionalisti.
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