Da D'Alema una parola chiara
L’altro giorno a Firenze, Massimo D’Alema ha rivelato, anche se de relato, una verità che tutti conoscono ma che nessuno ha mai voluto proferire, almeno ad un livello così autorevole.
“Al Qaeda” del miliardario saudita Osama Bin Laden è stata una “invenzione” congiunta di apparati sauditi, pakistani e Usa che l’hanno pianificata, finanziata e dotata di micidiali sistemi d’arma e usata per contrastare le forze sovietiche e i loro alleati in Afghanistan.
Una verità universale, ma imbarazzante per chi, oggi, è costretto a fare la guerra alla sua stessa mostruosa creatura accusata, fra l’altro, dello spaventoso attentato alle torri gemelle di New York.
Soprattutto negli ambienti politici e mediatici, tutti sanno di questa realtà. Taluni anche nei suoi più orrendi dettagli. Eppure si continua a tacere, anche di fronte le clamorose dichiarazioni del ministro degli esteri in carica. Il Corriere della Sera rimprovera a D’Alema d’averla “riesumata ora”, per prendersi il plauso della sinistra italiana.
Evidentemente, la “grande stampa” italiana è prigioniera di un allineamento aprioristico alla politica dell’amministrazione Bush, anche se ripetutamente sfiduciata dagli elettori e dal Congresso Usa.
Si continua a non informare compiutamente l’opinione pubblica italiana, forse temendo che la gente non comprenderebbe, ancor di più, il senso di una guerra distruttiva e inconcludente che, da oltre sei anni, si combatte su quelle stesse montagne dove gli ex amici di Al Qaeda, addestrati e armati anche dalla Cia.
Per tutto ciò ed altro, ha fatto bene il ministro degli esteri a ricordare la terribile responsabilità di chi ha “inventato” Al Qaeda e glorificato il suo ineffabile capo Osama Bin Laden.
Più che una ritorsione polemica o un contentino dato a Rifondazione, il richiamo di D’Alema ci sembra un invito a riflettere sopra la realtà tragica del pantano afgano che rischia di precipitare e da quale si potrà uscire solo con una conferenza internazionale da svolgere sotto l’egida dell’Onu e con il concorso di tutte le forze in campo.
Altra via non s’intravede per mettere fine a questa guerra sporca e disastrosa, in gran parte perduta, e salvare la faccia (e molto altro) anche agli incauti alleati Usa.
La “provocazione” di D’Alema dovrebbe suscitare il più grande dibattito per fare piena luce sulle molteplici responsabilità che pesano sulla realtà drammatica dell’Afghanistan e del Medio Oriente.
Cominciando col rispondere ad una domanda che spiegherebbe tantissime cose: chi è (o fu) veramente Osama Bin Laden e come ha potuto assurgere ad un ruolo così rilevante nella politica mondiale?
Scorrendo il curriculum di questo miliardario dallo sguardo triste che invoca Allah senza mai abbandonare il fucile, è agevole rilevare che, certo, non può essere considerato un campione della lotta per la pace e per il progresso democratico delle nazioni. Tutt’altro.
Ma vediamo in dettaglio. Osama, nato nel 1957, è il diciassettesimo figlio (su 54) di Mohammed Bin Laden, un muratore emigrato dallo Yemen in Arabia Saudita dove, entrato nelle grazie della famiglia reale, ha costruito un potente gruppo economico-finanziario, il terzo del regno saudita.
Il gruppo coltiva ottime relazione d’affari con vari potentati europei e Usa. Anche con la famiglia dell’attuale presidente Bush. Caso volle che il papà e un fratello di Osama (Salem) perirono nei cieli Usa, in due distinti incidenti aerei. Grazie all’immenso patrimonio e alle relazioni altolocate, Osama crebbe, ricco e spensierato, a stretto contatto con i principi di casa reale e col mondo dorato della finanza e del jet-set occidentali.
La svolta, in senso mistico, avvenne alla facoltà d’ingegneria dell’università di Gedda dove fu allievo di due eminenti personalità dell’islamismo radicale egiziano: Mohammed Qutub, fratello di Sayyed il più importante teorico islamista moderno, e Abdallah Azzam, futuro eroe della guerra santa anticomunista in Afghanistan.
Qui, nel 1982, il giovane miliardario ritrova il suo ex professore Azzam col quale crea, con fondi propri e altri raccolti tra i potentati più facoltosi della penisola arabica e con l’aiuto materiale e logistico di taluni servizi stranieri, numerosi centri di accoglienza e campi d’addestramento e un ufficio di coordinamento delle migliaia di combattenti arruolati per il Jihad, provenienti da vari paesi islamici e da alcuni europei a forte immigrazione musulmana.
“A quel tempo- scrive Gilles Kepel- tutto questo mondo era accolto con favore dall’establishiment saudita cui erano vicini Bin Laden e Azzam, la sacra causa dello Jihad afgano permetteva d’inquadrare dei potenziali facinorosi, di distoglierli dalla lotta contro i poteri costituiti del mondo mussulmano e contro il grande alleato americano e di sottrarli all’influenza iraniana. Negli Usa la causa era ben compresa: i “jihadisti” combattevano “l’impero del male” sovietico, evitando ai boys del Middle West di rischiare la loro vita e le petromonarchie pagavano la fattura…”
Al Qaeda, (in arabo “la base” di dati), sarà fondata in Afghanistan nel 1988 per schedare tutti i militanti jihadisti e trasformarli in una sorta di esercito dello Jihad permanente per instaurare la società islamica un po’ dovunque, soprattutto nei paesi a forte produzione petrolifera.
In realtà, dopo il ritiro sovietico dall’Afghanistan non aveva più senso mantenere in vita l’organizzazione di Bin Laden che, per giunta, s’era messo in testa di destabilizzare i tradizionali assetti di potere nella regione dove si concentrano le più grandi risorse e produzioni di petrolio del pianeta.
La rottura fra Bin Laden e il regime saudita, e il suo principale alleato americano, avverrà in occasione della seconda guerra del Golfo (1991), a causa del rifiuto di re Fadh delle profferte di al Qaeda di difendere i confini del regno e dei luoghi santi dell’Islam che il re affidò agli eserciti della coalizione occidentale, capeggiata dagli Usa.
Da quel momento, Osama, privato della cittadinanza saudita, si vedrà costretto a peregrinare da un paese all’altro: di nuovo in Afghanistan, in Pakistan, nello Yemen e infine in Sudan dove, oltre a intrattenere rapporti collaborativi con Hassan al- Tourabi, fondatore della Conferenza popolare islamica, non disdegna di effettuare copiosi investimenti nei settori delle costruzioni e dell’agricoltura.
Dal Sudan l’interesse di Al Qaeda si concentra in Africa Orientale (soprattutto Somalia) per contrastare le mire espansioniste dell’influenza saudita-americana nel Corno d’Africa.
Nel 1996, Bin Laden si trasferisce, armi e bagagli, nell’Afghanistan conquistato da una strana razza di studenti di teologia detti ”taleban” che, con l’aiuto dei soliti amici pakistani e sauditi, erano riusciti a prevalere sui vari gruppi e tribù fra loro in conflitto.
Dalle impervie montagne afgane, la rete di Al Qaeda si estende minacciosa in diversi paesi islamici e anche in alcuni europei e negli stessi Usa dove, per altro, le società di Bin Laden operano con successo in diversi settori della finanza e del mercato borsistico.
Il controllo politico e ideologico sulla feroce dittatura dei taliban, induce Bin Laden a ideare un progetto ambizioso, basato sul ruolo geopolitico dell’Afghanistan divenuto il baricentro fra le due principali aree di produzione petrolifera del pianeta e al contempo un punto di passaggio obbligato per il trasporto di gran parte di tali risorse verso il Mediterraneo e l’oceano Indiano.
L’idea è quella di rovesciare i regimi empi al potere e d’instaurare la “umma” (società islamica) e quindi usare l’arma del petrolio non per distruggere l’Occidente (nessun fornitore è disposto ad eliminare il suo miglior cliente), ma solo per acquisire un potere condizionante nel nuovo ordine internazionale che si stava delineando con la globalizzazione dell’economia.
Insomma, una sfida gravissima alle più grandi potenze petrolifere, un errore capitale del capo di Al Qaeda che, da ex amico, diventa il principale nemico dell’amministrazione di Gorge W. Bush, com’è noto molto sensibile al tema del controllo del mercato energetico.
Così comincia una caccia spietata a Bin Laden: dall’Africa al Medio Oriente, dovunque si verifica un attentato più o meno vistoso. Fino a quello terribile, e per molti versi sorprendente, dell’11 settembre.
Da sei anni Bush insegue, inutilmente, un fantasma sulle aride montagne che segnano il confine fra due paesi formalmente alleati degli Usa (Afghanistan e Pakistan). In questa avventura è riuscito a trascinarsi dietro governi di paesi democratici, fra i quali l’Italia, i cui interessi non coincidono con quelli Usa, soprattutto in quell’area. Il pericolo è che Bush, per evitare la disfatta militare, vorrebbe spingere le truppe alleate sull’orlo del baratro. Ed è questo ciò che, oggi, bisogna impedire. Prioritariamente. Per mantenere aperta la strada della conferenza internazionale di pace. Un po’ come ha fatto l’altro giorno il Senato.
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