Conflitti

«Ho fatto solo il mio dovere» Lozano si confessa al Ny Post

10 aprile 2007
Fausto Della Porta
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

«Ho fatto quel che avrebbe fatto qualsiasi soldato nella mia situazione». A parlare è il caporale Mario Lozano, il militare statunitense che il 4 marzo del 2005 sparò a Baghdad sul veicolo che trasportava l'inviata del manifesto Giuliana Sgrena e Nicola Calipari, ferendo la giornalista e uccidendo l'agente del Sismi. L'uomo si è confessato sul quotidiano The New York Post a pochi giorni dall'apertura del processo in contumacia che lo vede imputato in Italia per omicidio politico.
È la prima volta che la persona che premette il grilletto quella sera di due anni fa si esprime pubblicamente attraverso un giornale. Nell'intervista, il soldato ribadisce la versione da sempre data dal Comando Usa: la macchina con Sgrena e Calipari si trovava dove non doveva essere; nessuno aveva avvisato i soldati al check point che un'auto amica sarebbe passata. E, soprattutto, l'auto non si è fermata ai ripetuti segnali d'avvertimento lanciati dai militare al posto di blocco.
«Ho sparato perché non volevo tornare a casa in una bara», afferma il caporale, che oggi fa il muratore nell'impresa edile del padre ed è in cura per «disturbi post traumatici», sindrome diffusa tra i veterani di ritorno dall'Iraq. Nel ricostruire la dinamica degli eventi sulla strada che porta all'aeroporto di Baghdad, dove i tre passeggeri della Toyota Corolla sarebbero dovuti salire su un aereo e tornare a casa, Lozano sostiene di aver rispettato in pieno le regole di ingaggio: prima ha acceso il riflettore montato sulla torretta che «fa inchiodare qualsiasi iracheno»; poi ha sparato davanti alla vettura, e infine contro il motore della macchina.
Il soldato ha detto di non avere avuto scelta: le conseguenze di un'auto-suicida sarebbero state letali. «Solo due giorni prima due buoni soldati erano morti sulla stessa strada nello steso modo», racconta.
Insomma, Lozano conferma la versione ufficiale del comando Usa. Che, come sottolinea lo stesso giornale newyorkese, è «lontana anni luce» da quella italiana. Gli americani sostengono che il veicolo su cui viaggiavano Giuliana Sgrena e Nicola Calipari andava ad almeno 50 miglia orarie (mentre gli italiani affermano che andavano al massimo a 30 miglia all'ora). Quanto ai vari segnali d'avvertimento di cui parla Lozano, l'inviata del manifesto ha una versione completamente differente: «Il flash delle luci e le pallottole - 58, secondo quanto ricostruito dagli stessi inquirenti italiani - sono arrivati simultaneamente».
Nell'intervista, Lozano - che racconta come la sua vita sia diventata un incubo dopo quella notte di marzo del 2005 - non risparmia critiche alla nostra giornalista, anche abbastanza pesanti: «Sono sicuro che la sua vita non è come la mia. Lei sta facendo i soldi. È famosa. Io invece devo vivere con fatto che un uomo è stato ucciso perché non ha obbedito agli ordini e che sono stato io che ho premuto il grilletto».
Fra una settima precisa - martedì 17 aprile - si aprirà il processo a Roma contro Lozano. Un processo dal forte valore simbolico: nell'aula bunker della terza Corte di Assise di Roma, il caporale Usa dovrà rispondere di omicidio volontario e duplice tentato omicidio per aver violato «macroscopicamente le basilari regole di ingaggio».
Il soldato non sarà presente in quanto l'amministrazione Usa non ha mai raccolto la richiesta di collaborazione e le rogatorie avanzate tramite il ministero della Giustizia, al Dipartimento della Difesa, considerando il caso chiuso con l'inchiesta interna del Pentagono. Il gup Sante Spinaci nell'ordinanza del rinvio a giudizio ha stabilito invece non solo che quello di Calipari fu «un delitto oggettivamente politico», ma soprattutto che la giurisdizione italiana ha competenza a giudicare il militare. A dispetto di quanti, invocando l'articolo 10 del codice penale (presenza in Italia dello straniero che abbia commesso reati all'estero ai danni di nostri connazionali), rivendicavano lo stato di improcedibilità da parte della magistratura.
I pm Franco Ionta, Pietro Saviotti ed Erminio Amelio, a loro volta, si erano appellati ad una aggravante: la cosiddetta «offesa arrecata agli interessi dello Stato». Che, di fatto, consente di superare i paletti posti dall'articolo 10.

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