Donne del terzo millennio
Sohaila Aslami
Sohaila Jan, sorella mia, la tua memoria sarà sempre con noi
15 giugno 2007
Simona Lanzoni (Responsabile Progetti Fondazione Pangea Onlus)
Fonte: da Persona a Persona 7/07 (www.pangeaonlus.org) - 01 luglio 2007
Chi saranno le donne del millennio che verranno ricordate, quelle che simboleggiano l’impegno femminile di tutte coloro che operano quotidianamente affinché questo mondo sia un po’migliore per tutti?
Solo poche saranno ricordate ai posteri sui libri, sui giornali, rispettate e onorate nonché gratificate per la loro esperienza. Invece tante non passeranno alla storia, tra queste vi è Sohaila Aslami, una persona che si è sempre battuta perché le donne, i bambini e le famiglie intere, in Afghanistan, migliorassero la loro condizione di vita. Sohaila, la direttrice di uno dei Centri Donna che Pangea finanziava per promuovere l’educazione delle donne e la loro formazione professionale, è morta il mese scorso. Problemi all’utero. In Afghanistan, uno dei Paesi che ha la più alta mortalità al mondo, quando ci si ammala gravemente si hanno poche opportunità di uscirne vivi.
Sohaila è la prima persona che ho conosciuto quando sono arrivata a Kabul nel 2003, al di fuori dello staff afghano e delle amiche che conoscevo già. Energica, mi impressionò immediatamente. Devo ringraziare Ketty per avermela presentata. Non è mai riuscita a dirmi la sua età esatta, ma credo che non superasse i 35 anni.
Tra lei e me nacque subito una complicità spontanea, fatta di quei fili trasparenti che si tessono tra gli sguardi e i sorrisi, quella stima e fiducia reciproca, soprattutto quando si è impegnate a tracciare la stessa strada, e si vuole raggiungere lo stesso obiettivo. L’ho sempre considerata una donna troppo emancipata per il Paese in cui si trovava, spavalda, con la battuta pronta, teneva testa agli uomini e non si vergognava di niente rispetto alla media delle donne, all’educazione e ai riti sociali obbligatori della cultura a cui apparteneva. Corrosa dal senso di responsabilità verso la sua famiglia, un padre malato (che due anni fa è morto), una madre anziana e disabile, una sorella più grande di lei, considerata zitella senza speranza, e un’altra sorella sposata.
Lei, direttrice di scuole elementari durante il periodo dell’occupazione talebana a Kabul, non avendo mezzi per scappare e con a carico due genitori anziani, non potendo più lavorare, né uscire di casa, era andata in depressione, si annoiava profondamente. Decise di mettere un cartello davanti casa e improvvisarsi parrucchiera estetista del suo quartiere, malgrado i divieti dei talebani. Si fidava della complicità creata con la gente del quartiere, aprì un negozio di articoli da estetista, lavorava segretamente riunendo le donne e dava lezioni di alfabetizzazione.
Viveva in una delle stradine a labirinto di un quartiere di estrema periferia dove vivono la maggioranza dell’etnia hazara e degli sciiti. Il quartiere è interamente color sabbia, nelle stradine interne, tutte senza asfalto, scorre centrale lo scolo delle fogne a cielo aperto di ogni casa, mentre gli escrementi non riescono a scivolare fino al centro della strada, restando appiccicati sui muri delle case, i liquami si mescolano confluendo al centro, migliaia di mosche svolazzavano e l’odore è insopportabile.
Si entra in porticine, anguste non per benvenuto, ma per controllare chi è l’ospite. Le case sono piccole e uguali, piano terra con un giardino e se fortunati con un pozzo non prosciugato; una stanza per famiglia di 3 metri per 2, fino a un massimo di tre stanze. Hanno la plastica alle finestre e un vetro di tanto in tanto, le mosche entrano ed escono, ma immancabili sono le tendine di pizzo di plastica o tessuto acrilico 100%.
Nelle stanze tutto è apparentemente pulito e ben ordinato: i materassi dove si dorme la notte sono tutti impilati l’uno sull’altro da un lato della stanza e la notte, dopo aver mangiato, vengono distribuiti sull’intera superficie del pavimento e si dorme tutti insieme.
Lei fu l’insegnante del primo corso di estetista parrucchiera che Pangea finanziò e da cui si aprirono due negozi. Le donne erano attente e si divertivano a riscoprire la propria bellezza senza divieti. Ogni volta che andavo al Centro Donna che lei dirigeva, per rituale mi offriva del tè verde al cardamomo con i biscotti e le caramelle. La penultima volta ho visto Sohaila in Pakistan, mi regalò una sua foto in cui era serissima, tutto il contrario della Sohaila che conoscevo, io non avevo niente con me se non i miei orecchini, gliene diedi uno e le dissi che l’altro glielo avrei dato quando sarei tornata a Kabul. Dopo una cena a Islamabad con lo staff afghano tornammo a piedi in albergo, donne e uomini, passeggiando al fresco della sera, felici di poter camminare senza divieti e occhi giudicanti, in strade illuminate, asfaltate e senza fogne a cielo aperto, (al contrario di Kabul), in case straripanti di fiori, colori, profumi; la leggerezza sfiorava i nostri animi, serenità consapevole di quell’attimo fuggente. Sohaila e un’altra donna giocando iniziarono una gara di corsa per dimostrare chi era più veloce. Che emozione e che sorpresa vedere due donne che si sentivano libere di poter correre! In quell’atto c’era la rottura dei tabù imposti sul corpo e sulla mente di tutte le donne in Afghanistan.
Sembrerà assurdo, a voi che leggete queste parole, ma ho vissuto in prima persona in Afghanistan fin dentro le mie ossa cosa vuol dire l’impedimento fisico che si traduce anche in impossibilità mentale di far qualsiasi cosa tu voglia (sempre nel rispetto dell’altro si intende), persino camminare da sole per strade.
Erano lì davanti a me che correvano come delle forsennate, divertendosi, giocando come delle bambine vestite da grandi, con i tacchi. Quanto vale il sapore di un attimo di libertà davanti a tutta una vita di privazioni e costrizioni?
L’ultima volta che ho visto Sohaila era novembre. Mi regalò i pistacchi salati, io le diedi l’altro orecchino come le avevo promesso ad Islamabad. Mi aveva presentato un fidanzato, mi aveva detto che si sarebbe sposata in primavera. Al posto del matrimonio è venuta la morte a prendersela e a portarla via da questo Paese che non garantisce cure a nessuno. Sohaila nei Centri Donna era bravissima, riuscì a gestire situazioni di violenza domestica delicate, a dare speranza e a far loro continuare i corsi d’educazione e professionali: le donne la ringraziavano per il suo impegno e la prendevano a esempio.
Sohaila me la ricorderò per sempre libera dai giudizi e pregiudizi che le stavano così stretti, da cui tentava di fuggire pur ricadendoci sempre, costringendola a stringere la morsa, fino a morire di cancro.
Lei è una delle tante eroine silenziose che in Afghanistan ogni giorno si attivano per un cambiamento del loro Paese. Lei è un ottimo esempio per noi, per non cadere nella trappola dell’informazione che vuole che si parli di questo Paese pensando a luoghi comuni quali guerra e terrorismo. Sappiate che c’è altro! Ci sono persone come lei che stanno lavorando anche per noi, per cambiare il mondo. Parlare di loro vuol dire dare dignità e rispettare il loro impegno verso le donne, verso l’umanità!
Grazie!
Note: da Persona a Persona - Fondazione Pangea Onlus
Parole chiave:
afghanistan
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