Bosnia, il seme wahabita
Obbiettivo dei mujahidin, accorsi a migliaia in Bosnia a inizio anni '90, non era difendere i musulmani bosniaci e il loro islam tradizionale, ma diffondere il wahabismo di stampo saudita. Il loro compito non s'è esaurito con gli accordi di Dayton, così in molti sono rimasti, concentrati nelle loro enclave, costruendo e imponendo comunità talebanizzate. Dopo l'11 settembre e le pressioni Usa hanno dovuto ridimensionare presenza e visibilità. La recente revoca delle cittadinanza ha imposto anche un atteggiamento apparentemente più «moderato». Ma il seme è gettato.
Il cambio di clima ha dato anche la forza a molte donne di ribellarsi alle imposizioni dei wahabiti, che godono di finanziamenti dei sauditi. La loro azione di proselitismo è quindi accompagnata da opere di solidarietà e assistenza, facili da attecchire in situazioni d'estrema difficoltà. L'assistenza è accompagnata da un compenso mensile per chi si adegua alla «ortodossia» wahabita: mettere il velo (circa 200 euro al mese), portare la barba e andare alla moschea. Se una famiglia musulmana si adegua alle regole porta a casa un «mensile» di quasi 1.000 euro, da fare invidia a un pensionato o a un operaio - non parliamo poi dei serbi e croati senza lavoro dopo la guerra.
Il fenomeno è ora più diffuso nei villaggi, mentre in città l'osservanza dei precetti wahabiti è presente ma meno evidente, se non nei quartieri di periferia. Comunque, anche nello splendido centro storico, pieno di ristorantini, negozi, oltre che di chiese e moschee accanto alla sinagoga, affollato di turisti non è più possibile trovare una bevanda alcolica. Anche la carne di maiale è sparita, solo qualche macelleria di periferia la vende ancora. Donne con il niqab (velo integrale nero) sono rare in città, mentre è piuttosto diffuso l'hidjab (velo che copre capelli e spalle). Su una bancarella davanti alla Moschea delle rose, insieme ai giocattoli, si vendono borsette per bambine con la Barbie araba velata.
Ma non mancano le minigonne e gli ombelichi al vento. Sono due società che si sfiorano ma non si toccano. Ma ci sono ambiti in cui il confronto è inevitabile: nella scuola, che è divisa su base etnico-religiosa, dove si insegna una storia diversa a seconda della appartenenza, e che esclude chi rifiuta uno schieramento nazionalista. I laici, che si autodefiniscono la «quarta etnia», si sentono emarginati. Così come i figli di coppie miste la cui appartenenza etnico-religiosa deve essere dichiarata alla nascita. Veli diffusi anche nelle università, tanto che ci sono studentesse che arrivano dalla Turchia per poter andare «liberamente» in facoltà con il velo. A medicina, dove le studentesse sono numerose - secondo i dettami wahabiti le donne possono essere curate solo da medici donne - e quasi tutte velate, il solito saluto «zdravo» o l'altrettanto diffuso «ciao» è stato sostituito da «as-salam haleikum» (quello islamico).
L'effetto più penalizzante della reislamizzazione è proprio sulle donne: «siamo costrette a difendere i diritti acquisiti con il passato regime, invece di lottare per la democrazia», sostiene Nada Ler Sofronic, sociologa, una delle prime femministe della Jugoslavia e organizzatrice del primo incontro - a Belgrado nel 1978 - tra femministe jugoslave e occidentali. Ora è direttrice di Women and society di Sarajevo.
«La ritradizionalizzazione (preferisce questo termine a reislamizzazione, ndr) e "ripatriarcalizzazione" della vita politica e privata, con l'aumento del fondamentalismi religiosi e il clericalismo, riguarda tutte le religioni: cattolica, ortodossa e musulmana, anche se è più evidente quella islamica, perché qui costituisce la maggioranza della popolazione e perché è più visibile nel modo di vestire con il velo, il niqab. Il velo è l'aspetto più visibile della "ritradizionalizzazione" dei ruoli sessuali, ma forse non è il più importante: ci sono donne non velate che subiscono violenze domestiche, discriminazione sul lavoro, impossibilità di partecipare alle decisioni politiche», continua Nada Ler Sofronic «ci troviamo circondati da un capitalismo brutale e primitivo basato sulla logica del consumismo, dai fondamentalismi strumento dell'estrema destra, e dall'autoritarismo politico ereditato dal regime precedente. Tutti questi fattori alimentati dal patriarcato fanno delle donne il gruppo sociale più vulnerabile». E continua: «Non c'è una seria critica di sinistra al fondamentalismo religioso, perché non c'è la volontà politica e il coraggio di criticare il progetto politico, la visione, gli obiettivi politico-sociali che stanno dietro i fondamentalismi religiosi. Non si tratta di un discorso religioso: la religione viene usata come strumento da un movimento neoconservatore e nazionalista, è la destra politica. Il pericolo è rappresentato anche dal fatto che non vi è una chiara risposta della sinistra , che scende a compromessi con il populismo e non ha il coraggio di affrontare questa grande sfida, ha paura del discorso sui diritti umani, che a volte serve a giustificare i fondamentalismi, e soffre di relativismo culturale», conclude la femminista.
Critiche su sottovalutazione del wahabismo e sua diffusione sono rivolte ai vertici della comunità islamica, che, si dice, non ha fatto abbastanza per fermare il wahabismo dei mujahidin. Il reis Mustafa Ceric, gran mufti della Bosnia, noto in Europa per gli incontri inter-religiosi, alla nostra domanda su una possibile minaccia wahabita risponde seccato: «Sono pregiudizi intellettuali, parlare di wahabiti serve solo a colpevolizzarci, perché non parliamo invece di genocidio, di Srebrenica? Noi siamo musulmani da sei secoli e siamo abbastanza maturi per non farci influenzare da ideologie che vengono da fuori. Sono solo diverse interpretazioni dell'islam». Quindi nessuna minaccia, insistiamo: «temo che si possa ripetere un genocidio», risponde.
Sono in molti in Bosnia a temere che la situazione, solo tamponata da Dayton, riprecipiti. Qual è la soluzione, per il Rais, uno stato musulmano o uno multietnico? «Se si ricorda l'esempio storico dei musulmani in Spagna - risponde - quando furono costretti a ritirarsi a Cordoba iniziò la loro fine. Quindi questa non può essere la soluzione, è una questione esistenziale dobbiamo difendere il multiculturalismo come ideologia, per sconfiggere l'estremismo. Ci vorrà tempo, ma l'Europa ci deve aiutare. S i Balcani non avranno accesso al processo di europeizzazione, sarà l'Unione europea a rischiare la balcanizzazione», conclude.
Sociale.network