Conflitti

«Sono sei gli algerini deportati a Guantanamo»

12 luglio 2007
Giuliana Sgrena
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Dopo giorni di inseguimento, finalmente riusciamo a trovarla. Nadja Dizdarevic è la moglie di Boudellah Hadj, di Laghouat, 43 anni, laureato in fisica, uno dei sei algerini deportati a Guantanamo da Sarajevo nel 2002. E' l'unica delle mogli che dopo quasi sei anni ancora non si dà per vinta, quelle degli altri cinque si sono rassegnate o temono rappresaglie. Lei continua a girare in Bosnia, nell'ex Jugoslavia e in Europa - da Strasburgo a Londra - per sensibilizzare sul caso del marito e degli altri algerini. Non vuole parlare davanti ai figli, cresciuti troppo in fretta, dice: alla tv guardano solo le notizie invece dei cartoni animati. L'appuntamento è in una pasticceria di fronte alla moschea re Fahd, quella saudita frequentata dai mujahidin, poco lontano da uno dei palazzoni in cui abita. Divisa islamica: abito lungo color grigio-blu con rifiniture bianche come l'ampio velo di chiffon che le copre interamente viso e spalle lasciando intravedere solo gli occhi azzurri sottolineati da una riga nera. E' molto decisa a battersi per far tornare il marito, nel suo racconto non traspare emozione anche se la sua vita non deve essere facile, con quattro bambini, l'ultima nata dopo l'arresto del padre.
Ha conosciuto il marito a Zenica, quando dirigeva una organizzazione umanitaria egiziana, per la quale lavorava anche lei. Era arrivato in Bosnia nel 1992 con l'ong egiziana, arruolato nell'unità dei mujahidin, dopo essere stato ferito era tornato al lavoro umanitario, racconta Nadja. Non risparmia dettagli sul giorno dell'arresto: il 22 ottobre 2001, «agenti di forze diverse, bosniache, cantonali e Sfor, erano venuti a casa a perquisire, hanno buttato tutto sotto sopra, alla fine avevano portato via dei file del computer e un elenco di telefonate». Ma, aggiunge, «loro cercavano armi e droga ma non ne hanno trovate, c'erano solo i fuochi che si sparano a capodanno e caramelle che i militari della Sfor distribuivano ai bambini, ma per gli agenti si trattava di fosforo!». Insieme a Hadj Boudella erano stati arrestati Mustafa Ait Idir, Belkacem Bensayah, Saber Lahmer, Lakhdar Boumediene e Mohamed Nechle.
L'accusa rivolta ai sei algerini era di aver complottato per organizzare un attentato all'ambasciata Usa a Sarajevo. Accusa mai confermata, tanto che la Corte suprema della Bosnia il 17 gennaio 2002 aveva ordinato la scarcerazione dei sei sostenendo che non c'era nessuna prova a loro carico che giustificasse la detenzione. Inoltre, siccome cominciavano a circolare voci di una possibile deportazione a Guantanamo, lo stesso giorno la Corte per i diritti umani bosniaca aveva reso pubblica una dichiarazione contraria a simile ipotesi.
«C'era un chiaro ordine di non deportarli. Il governo Usa l'ha completamente ignorato», aveva affermato Manfred Nowak, speciale rapporteur dell'Onu sulla tortura. «Non è plausibile sostenere che sono "nemici combattenti". Erano combattenti durante la guerra, ma la guerra è finita nel 1995. Possono essere estremisti islamici, ma non hanno commesso crimini». Almeno non quello per cui erano accusati dagli americani. La presa di posizione della Corte per i diritti umani era stata del tutto inutile. E inutile il tentativo di oltre cento persone, mobilitate da Nadja Dizdarevic, quel 17 gennaio 2002, per evitare la temuta deportazione. Avevano ingaggiato scontri con la polizia tutta la notte, nonostante il freddo, fino alla mattina del 18 quando hanno dovuto cedere di fronte al lancio di lacrimogeni e i prigionieri invece di essere rilasciati erano stati consegnati - ma Nadja parla di «rapimento» - ai militari Usa e deportati a Guantanamo.
Perché se non erano state trovate prove a loro carico? «Non volevamo che seguisse un altro periodo di instabilità in Bosnia», aveva detto l'allora premier bosniaco, Alija Behmen. Il paradosso è che proprio gli Stati uniti avevano premuto per la creazione in Bosnia della Corte dei diritti umani per poi ignorarne le decisioni. In realtà ai sei non è mai stato contestato il complotto per attaccare l'ambasciata Usa a Sarajevo, ma i legami con al Qaeda. Evidentemente allora cercavano un pretesto per chiudere l'ambasciata Usa e quindi dovevano esercitare forti pressioni sulle autorità. Poco importava se si trattava solo di sospetti. Tanto che, lo scorso anno, il suocero di uno dei deportati, Saber Lahmar, il sospettato numero uno che lavorava per il Saudi high committee for relief, è stato assunto come custode proprio dall'ambasciata Usa!
Anche le contestazioni fatte ai sei per dimostrare che erano «nemici combattenti» sono sempre state casuali. Nadja è riuscita ad avere contatti con il marito tramite un gruppo di avvocati americani pronti ad assisterlo gratuitamente. Ora, dice, riceve sue lettere censurate di tanto in tanto, «ma non so nemmeno quando sono state scritte». Comunque Boudella ha atteso due anni e mezzo a Guantanamo prima dell'udienza in cui è stata notificata, nell'ottobre 2004, la sua classificazione come «nemico combattente». Gli interrogatori riguardavano i suoi legami con al Qaeda, l'appartenenza ai Gruppi islamici algerini (Gia), la sua presenza in Afghanistan a Tora Bora con i taleban (nel dicembre 2001, quando era detenuto in Bosnia).
Ma il Pentagono non ha mai rivisto le sue posizioni sui sei algerini: «Non c'è stato nessun errore. Il loro arresto è direttamente legato alle loro attività di combattenti come è stato determinato dal dipartimento alla difesa prima del loro trasferimento a Guantanamo», secondo il Washington post del 21/8/2006. Nonostante le richieste di rilascio avanzate dal governo bosniaco al segretario di stato Condoleezza Rice, la risposta è sempre stata negativa.
Nadja Dizdarevic è ancora più preoccupata dopo aver partecipato, nell'aprile dello scorso anno, a Londra a una conferenza con ex detenuti di Guantanamo che raccontavano le condizioni di detenzione. Aveva anche iniziato uno sciopero della fame, che ha dovuto interrompere per motivi di salute. Ora prepara una petizione da lanciare su un sito internet.
Parla senza pause, è un fiume in piena, non accetta nemmeno un caffè, dovrebbe scoprirsi il viso. Qualcuno si avvicina per ricordarle un impegno. Lei si allontana e scompare dentro la moschea di re Fahd.

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