I bambini di Kraljevo
Kraljevo, 200 chilometri a sud di Belgrado. Città difficile e povera che, nella sua miseria si trova ad ospitare migliaia e migliaia di profughi. Sono i dimenticati: 200.000 in fuga dal Kosovo per effetto della contropulizia etnica da parte delle leadership albanesi legate all'ex Uck. A partire dal'ingresso delle truppe della Nato nel giugno-luglio del 1999, dopo gli accordi di pace di Kumanovo che posero fine a 78 giorni di bombardamenti aerei «umanitari» sulla ex Jugoslavia (sulla Serbia ma anche su tutto il Kosovo e con «effetti collaterali» devastanti») è cominciata la caccia al serbo, al rom, al goranji. Tutti sono scappati nel terrore, anche la piccola comunità ebraica di Pristina. Ora vogliono dare al Kosovo addirittura l'indipendenza dalla Serbia. Ancora una indipendenza etnica.
Di questa tragedia pochi si sono accorti. Ora tutti quei profughi vivono in condizioni disumane nel sud della Serbia. Per loro - dato che la motivazione della guerra umanitaria era di «salvare i profughi» - nessuno ha mai pensato ad una «guerra umanitaria». Altri disperati vivono nelle enclave in Kosovo, i nuovi ghetti sotto «protezione» della comunità internazionale che non ha impedito la distruzione di 150 monasteri ortodossi e l'uccisione di quasi duemila persone. I serbi profughi dal Kosovo vanno ad aggiungersi nella poverissima Serbia, ai 300.000 in fuga dalla Croazia e agli altri 400.000 fuggiti dalla Bosnia Erzegovina. Quasi un milione i serbi profughi. Nessuno ne parla. Le loro storie silenziose però si fanno ascoltare, parlano alla nostra vita. Basta volerle ascoltare, parlare con i bambini, provare a sostenerli.
La fabbrica
C'è una strada, a Kraljevo, che è la via per l'altrove. Da quella strada vai al nord, fino in Italia, attraversando tutta la (ex) Jugoslavia. Oppure al sud, verso il mare, fino all'imbarco di Bar, per arrivare in Italia, attraversando tutta la (ex) Jugoslavia. Su quella strada c'è una fabbrica.
La puoi vedere da lontano, con le sue ciminiere sempre fumanti, i suoi reparti con le vetrate lunghe e fredde, di alluminio, l'insegna e tutto il resto. La mattina presto, quando ancora il sole dorme lontano, tante persone, come formiche, sembrano avere appuntamento lì. Arrivano senza nessun segnale, ma solo perché sanno che quella è l'ora. L'ora di lavorare. Chi arriva dai campi, chi dalle strade vicine, tanti con le torce elettriche, per fare un poco di luce. Non ci sono bar dove prendere un caffé... loro se lo faranno dentro, il caffé, se ci sarà il tempo. E di questi tempi, di tempo ce ne è sempre tanto...
Perché quella fabbrica non produce più nulla. Un tempo, scaldabagni ed elettrodomestici. Ora, produce solo attese, speranze, a volte tanta rabbia. Dopo la guerra, pian piano tutto è finito.
Gli operai continuano ad andarci perché senza non saprebbero come fare. E poi, c'è da tenerla in vita, quella fabbrica, con i suoi macchinari che, altrimenti, morirebbero. E con loro, la speranza. Di rivederla in funzione, un giorno. Per riportare il tempo indietro.
Ma il tempo va avanti. Chi lo chiama progresso, chi globalizzazione...
Così, mesi fa, è arrivato un padrone indiano per comprarla, la loro fabbrica....L'illusione della ripresa, la solita richiesta di sacrifici, figurarsi!, tutto si fa per la fabbrica. Si rinuncia pure a tutti gli stipendi arretrati, ai diritti, alle ferie, a tutto!
Pure al Kosovo si rinuncia, tanto ormai pure il Kosovo è lontano...
«Kud god da krenem, tebi se vracam ponovo... ko da mi usme iz moje duse Kosovo!» (-) (Ovunque io vada, è a te che torno di nuovo... perché nessuno può togliermi dall'anima il Kosovo!)
Ma l'indiano appena ripresa la produzione per qualche mese, dopo aver pagato qualche stipendio, è sparito. Con i contributi in tasca.
Storie sempre uguali, sempre quelle. Anche le facce delle persone truffate, sono sempre le stesse...
Da piccolo, tanti anni fa, qualche volta mi alzavo presto, la mattina, quando il sole ancora dormiva, lontano. Magari mia nonna era già in piedi, con le altre donne, per fare il pane. E gli uomini già nella stalla o a prepararsi per il lavoro nei campi. Mi piaceva uscire e vedere ancora il buio intorno a tutta quella vita. E vedere anche tanti ragazzi e ragazze e uomini e donne, posare le loro biciclette addosso al muro della stalla di mia nonna, per andare a piedi fino alla fermata del pullman, che li avrebbe portati in fabbrica. La fabbrica... la loro, fabbrica. Ne parlavano male, ma era la loro fabbrica.
L'atmosfera di quella strada a Kraljevo, la mattina presto, quando il sole ancora dorme, lontano, è la stessa. Facce stanche, senza troppa speranza. Da piccolo, da mia nonna, erano tutte più sorridenti, quelle facce. Stanche, ma sorridenti. Forse, ero io bambino a vederle così. Si sa, negli occhi dei bambini il sorriso entra molto più facilmente. Ma questo, dovrebbe accadere sempre e ovunque...
A Kraljevo, su quella strada, davanti a quella fabbrica, non accade più.
Andjela e il topolino
C'è un topolino che non trova pace, nel giardino di casa mia.
Ha trovato un dentino, tempo fa, ma non sa chi ne è il proprietario. Così vaga, alla ricerca di quel proprietario perché, altrimenti, non trovandolo, non potrà portare anche il soldino. Tutti i topolini hanno a disposizione qualcuno di quei soldini. Ma con solo i dentini e senza i proprietari diventa tutto più complicato.
Ma il proprietario io lo conosco. Anzi, «la» conosco...
E' una bambina di 9 anni, si chiama Andjela. Vive a Kraljevo anche lei, anche lei rifugiata dal Kosovo.
Le hanno fatto una analisi del sangue, ad Andjela, così mi ha detto la mamma, per confrontare il suo Dna con quello di alcuni resti umani trovati in una fossa comune in Kosovo, dalle parti di Orahovac.
Tra quei resti, forse, il papà di Andjela, ammazzato dalla violenza cieca di una guerra assurda, che nessuno ha mai capito, né spiegato fino in fondo. Ammazzato nel 1998, da una violenza che andava preparando quella guerra nei minimi dettagli.
Andjela non lo sapeva che fra quei minimi dettagli c'era anche la morte del suo papà.
Non poteva sapere che quella guerra l'avrebbe resa profuga, costringendola alla fuga da casa sua a solo un anno e mezzo di vita, senza averlo mai nemmeno conosciuto, il suo papà.
Non poteva saperlo. E non poteva saperlo nemmeno il suo papà. E nemmeno la sua giovane mamma, Sladjana, che ora sta cercando di rifarsi una vita. Lontana dalla guerra, lontana per sempre da quella vita, fatta di morte.
Ma non sa nulla nemmeno questo topolino, che gira col dentino e il soldino da portare, nel giardino di casa mia. Non sa che quella guerra avrebbe portato Andjela a giocare in questo giardino, dove il pericolo più grande, per il topolino, sono i gatti. Andjela ha giocato in questo giardino, con altri bambini, anche con i gatti. Ha avuto momenti di gioia, di felicità. E lì ha perso uno dei suoi dentini. Il topolino cerca solo un posto dove poter lasciare quel soldo. Non credo aspetterà il prossimo anno. Gli anni passano, cambiano le cose. E i gatti sono troppo pericolosi.
Gli ho detto di lasciarmi il soldo e di andare via tranquillo... penserò io a portarlo ad Andjela, il prossimo inverno.
Intanto, Sladjana, la mamma... ci ha informati che hanno ritrovato un Dna compatibile con quello della piccola Andjela, fra i resti umani di quella fossa. Significa, che hanno ritrovato il suo papà.
Ma tutto questo, Andjela, ancora non lo sa...
Ospiti in Italia di «Un Ponte per...»
Sono stati qui fra noi, in questi giorni. A Roma a Fontana di Trevi e al mare, ad Anzio. Presso un centro estivo, a giocare a pallone o a fare tuffi in piscina. Sono i ragazzini di Kraljevo, 200 km a sud di Belgrado. Sono profughi dal Kosovo, vittime dell'intervento "umanitario" che la Nato sferrò alla Jugoslavia nel marzo 1999, per 78 giorni, complice il nostro governo con l'appoggio di quasi tutto il parlamento. Un Ponte per..(www.unponteper.it C/C Postale n. 59927004, C/C Bancario n° 100790 c/o Banca Popolare Etica, ABI: 5018 CAB: 12100 CIN: P specificare la causale: "C'è un bambino che...") grazie anche all'Università di Roma Tor Vergata, da 5 anni li porta in Italia, ospiti di famiglie di dipendenti dell'ateneo, per una vacanza estiva. Quest'anno erano trenta, altri venti sono andati a Bitritto, vicino Bari, grazie all'impegno della comunità parrocchiale locale. I più grandi di loro ricordano. Le bombe, la fuga, l'abbandono. Di luoghi ma pure, spesso, di affetti. In questi giorni, in molte fosse comuni, vengono alla luce resti umani che ci dicono che fine hanno fatto molti di loro. Nel cimitero di Kraljevo si contano numerose recenti sepolture con su incisa una data... 1999! Un Ponte per... ha eletto questi bambini a testimoni di quella tragedia. Che non è finita.
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