Giustizia, il made in Italy invade l'Afghanistan
E' difficile fare le riforme giudiziarie. A casa nostra, come ci dimostra il drammone mediatico-parlamentare di questi giorni, figuriamoci per un contesto, come quello afghano, del tutto ignoto alla nostra cultura giuridica e fondato su basi culturali molto diverse dalle nostre. Alla Conferenza di Bonn dei «paesi donatori», volta alla ricostruzione dell'Afghanistan liberato dal giogo di inciviltà taliban-tribale, ci siamo baldanzosamente proposti di contribuire alla pacificazione del paese «esportando» un'organizzazione giudiziaria ed un codice di procedura penale. Una tale offerta può giustificarsi soltanto assumendo che all'Afghanistan di oggi tali istituzioni «all'occidentale» servano, che manchi in loco un ordinamento giuridico degno del nome e che quindi un trapianto istituzionale, che ancora una volta mira a trasferire istituzioni occidentali in un sistema giuridico «altro», possa essere desiderabile e riuscire. Un'offerta figlia di un evidente mentalità imperialistica di cui siamo prigionieri insieme ai nostri alleati e che tuttavia serve a lavare la coscienza anche a sinistra. Siamo complici di orrende operazioni di guerra, ma a ben vedere contribuiamo alla pace perché esportiamo la rule of law che, non solo in Afghanistan ma in tutto il mondo non civilizzato, manca. Insomma, come fecero gli inglesi in India, noi italiani regaleremo ai selvaggi una civiltà giuridica di cui essi hanno un terribile bisogno, dediti come sono a lapidare, mutilare e costringere in burqua le loro donne. Certo, alla civiltà giuridica made in Italy è allocata una frazione minuscola di un gigantesco budget «per la ricostruzione», dedicato per l' 85% a contratti militari, ma pur sempre si tratta di 50 milioni di dollari e di molto prestigio internazionale. Perché proprio all'Italia, che pur nelle imprese coloniali passate si era distinta più per la costruzione delle strade che della civiltà giuridica' A casa nostra non facciamo che litigare e sulla procedura penale continuiamo a cambiare idea, ma a Bonn ci hanno comunque premiati per aver emanato, primi nella periferia imperiale (1988) una procedura penale «all' americana», dimostrando così fedeltà ad un'ortodossia penale dominante a livello globale, il cui autentico e terrificante effetto sulla civiltà giuridica possiamo oggi purtroppo apprezzare leggendo il volumetto Il terzo strike di Elisabetta Grande (Sellerio Ed.).
I pochi giuristi che hanno seriamente studiato l' Afghanistan, ed altre simili società «a potere diffuso», come per esempio la Somalia, con equilibri allergici alla centralizzazione del potere, sanno benissimo che fra le cose che non mancano a queste società certamente ci sono la cultura e la sensibilità giuridico-politica e del negoziato, che il principio dell'unanimità stimola nella popolazione fin dalla più tenera età. I meccanismi giuridici di queste culture dell'unanimità sono infatti quelli che gli antropologi chiamano «face to face», tipici di società fondate su gruppi anche etnici in costante negoziato fra loro. In queste società non c'è legittimità per il principio di maggioranza imposto dal meccanismo elettorale statuale, né per la distinzione tutta occidentale, fra giustizia civile (che governa rapporti fra individui) e giustizia penale (che governa rapporti fra individuo e potestà punitiva dello stato). In tali contesti, il trapianto di un diritto «moderno» altro non è che una rinnovata violenta fase di centralizzazione del potere che allontana (anche fisicamente) il diritto dai suoi utenti, in spregio dell'intima relazione fra decentralizzazione e legittimità tipici dei governi a potere diffuso. In Afghanistan, da tempo immemorabile le istituzioni di giustizia tradizionali (che a noi possono apparire informali solo perché non sappiamo comprenderne le forme) svolgono una funzione di controllo importantissima sugli arbitri del governo centrale. Tali istituzioni sono riuscite a mantenere il diritto nelle mani delle popolazioni, sebbene siano state costantemente attaccate e diffamate dai maldestri tentativi coloniali e neo-coloniali della centralizzazione e dell'imposizione della statualità, di cui il «nostro» codice di procedura penale da 50 milioni non è che l'ultimo, cinico, episodio.
La sensibilità e la cultura giuridica della società afghana tradizionale purtroppo manca alle potenze straniere che intervengono al fine di centralizzare il potere, per individuare e legittimare, con categorie estranee alla cultura locale, interlocutori più o meno fantoccio che possano servire da complici per il saccheggio coloniale e neo-coloniale. Nell' attuale fase di sviluppo capitalistico, infatti, il premio della guerra non è più soltanto la conquista diretta di risorse locali. In molti ambiti, come attualmente in Afghanistan, la guerra (mascherata da operazione di pace) serve proprio a «liberalizzare» le economie introducendo un'idea di rule of law all' occidentale che altro non è che una garanzia per gli investimenti funzionale alle esigenze delle società multinazionali. Per esempio, Unocal, gigante energetico californiano, del quale era alto funzionario Amid Karzai, presidente afghano, era stato escluso dal governo talibano dalla costruzione e gestione del mega-oleodotto della regione del Mar Caspio, che dovrebbe trasportare il petrolio fino al Mar Arabo. Questa multinazionale si è mossa abilmente dopo l'11 settembre ed i contratti precedentemente stipulati dal governo afghano con altre compagnie sono stati tutti rescissi perché non si fondavano su basi giuridiche civili...Saranno pure «soltanto» 50 milioni, ma forse l'Afghanistan avrebbe diritto a che le sue istituzioni ed i suoi equilibri fossero rispettati.
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