Prostituirsi a quarant'anni per poter sopravvivere: il destino delle donne irachene nel Paese "liberato"
Quando Rana Jalil ha perso il marito in un attentato, l'anno scorso, non immaginava certo che, a 38 anni, sarebbe stata costretta a prostituirsi per nutrire i suoi quattro figli. Ma dopo settimane a caccia di lavoro in un paese dove le donne sono sempre più discriminate, e dopo che il medico aveva diagnosticato una grave forma di malnutrizione per tutti e quattro i suoi bambini, Rana ha dovuto capitolare. Ha raggiunto il più vicino mercato e si è messa in vendita al migliore offerente. «Sono abbastanza piacente e non ho avuto difficoltà a trovare un cliente» ha dichiarato a una giornalista di Al Jazeera. «Quando però mi sono trovata a letto con lui ho cercato di scappare. Fino a quel momento ero stata solo con mio marito e non riuscivo nemmeno ad accettare l'idea. Ma lui mi ha colpita, poi mi ha stuprata e alla fine mi ha pagata. Ho pensato che per me fosse davvero finita. Ma quando sono tornata a casa con il cibo e ho sentito i miei figli gridare per la felicità ho scoperto che l'onore ha ben poca importanza rispetto alla fame dei miei bambini».
Rana non è affatto un caso isolato: fa parte di quell'esercito di vedove disperate che, secondo le autorità irachene, sono 350mila nella sola Baghdad, e almeno otto milioni nel resto del paese. Non si tratta soltanto delle vittime della guerra infinita che sconquassa il paese dal 2003. Prima dell'invasione statunitense le vedove irachene, in particolare le numerosissime vedove della guerra Iran-Iraq, potevano contare su di una piccola pensione governativa, sull'educazione e l'assistenza sanitaria gratuite e, in alcuni casi, perfino sulla disponibilità di una casa fornita dal governo. Dalla "liberazione", però, tutte le misure di sostegno sociale sono state tagliate costringendo una buona parte delle vedove - almeno il 15 per cento secondo l'organizzazione Women's Freedom in Iraq - a mettersi disperatamente in cerca di matrimoni temporanei o a entrare nel giro della prostituzione, sia per soldi che per ottenere protezione nel mezzo della guerra civile. Secondo Huha Salim, portavoce dell'organizzazione, «centinaia di donne stanno cercando un modo per sbarcare il lunario visto che nessuno vuole dar loro lavoro per paura delle rappresaglie dei gruppi fondamentalisti, che prima quasi non esistevano in Iraq». Purtroppo molto spesso le donne finiscono nella rete del grande traffico - secondo l'organizzazione almeno 4mila donne (il 20 per cento minorenni) sono scomparse dal marzo del 2003.
Mentre la situazione continua a peggiorare molte famiglie sono costrette a prendere decisioni terribili. Un certo Abu Ahmed per esempio, incapace di nutrire da solo i suoi cinque figli perché affetto da un grave handicap, e anche lui vedovo, ha ammesso di avere venduto la figlia più grande a un trafficante internazionale perché non sapeva come nutrire gli altri quattro bambini. «Sono sicuro che ovunque sia almeno ha da mangiare. Con quello che mi hanno dato per mia figlia posso almeno salvare gli altri quattro». I giornalisti di Al Jazeera sono riusciti a rintracciare la donna che ha contattato Abu e che gira per i quartieri più poveri a caccia di giovani donne da vendere alle gang che gestiscono il traffico di ragazze con i vicini paesi arabi. L'intermediaria, che dorme ogni giorno in una casa diversa per paura della vendetta dei fondamentalisti, ha spiegato all'emittente che il suo ruolo consiste nel convincere le ragazze a partire, promettendo loro una vita migliore appena passato il confine visto che tanto «le famiglie non le vogliono e da sole qui non hanno molta speranza di sopravvivere. Noi offriamo loro del cibo, un tetto e 10 dollari se vanno con almeno due clienti al giorno. La nostra priorità sono le ragazze vergini: possono essere vendute a prezzi molto alti nei ricchi paesi del Golfo». In realtà, alle miserabili famiglie che hanno messo in vendita le figlie difficilmente arrivano più di 500 dollari: il grosso del malloppo finisce nelle casse del racket e nelle tasche degli intermediari.
Una volta arrivate nelle capitali vicine, però, le ragazze irachene non hanno certo vita facile. La diciassettenne Suha Muhammad, per esempio, venduta dalla madre dopo la morte del padre, è stata immediatamente stuprata al suo arrivo in Giordania dai membri della gang che l'aveva comprata. In seguito è stata ceduta a una banda che riforniva persone importanti in Siria e veniva spesso portata ad Amman, la capitale giordana, per incontrare clienti d'alto profilo. Dopo sei mesi è riuscita a scappare: «Una famiglia irachena mi ha accompagnata al dipartimento immigrazione e mi ha aiutata a ottenere un passaporto per tornare nel mio paese. Ora mia zia si prende cura di me a Baghdad: non avrebbe mai immaginato che mia madre sarebbe arrivata a vendermi, ma sfortunatamente le donne in Iraq contano davvero poco».
Il traffico di schiave sessuali nella regione è un problema drammatico quanto sommerso. Mayada Zuhair, portavoce della Women's Rights Association di Baghdad, racconta del tentativo di monitorare il fenomeno da parte delle associazioni non governative irachene e arabe. «Stiamo cercando di capire che fine hanno fatto le vedove e le adolescenti sparite finite nelle mani del racket. Sfortunatamente non è un compito facile da assolvere senza sostegno internazionale, soldi o risorse. Il traffico è molto esteso ed estremamente redditizio, e conta sull'abbandono nel quale sono state lasciate le donne irachene».
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