Ultima provocazione: elezioni a novembre
All'improvviso il rappresentante dell'Onu a Pristina Joachim Rueker ha deciso di indire «nuove elezioni politiche in Kosovo il 17 novembre». Lo ha fatto consultando solo la maggioranza e le autorità albanesi. Si va dunque alla riedizione del 2004, quando in elezioni monoetniche votò solo una parte della cittadinanza e si candidarono veri e propri criminali protagonisti di massacri e pulizia etnica a danno di serbi e rom, in fuga in 200mila dalla regione mentre contro di loro si scatenava il terrore e venivano bruciati e rasi al suolo 150 monasteri ortodossi sotto gli occhi della «vigile» Nato. L'unica reazione è del Tribunale dell'Aja che ha ammonito la leadership albanese a non ricandidare l'ex premier Ramush Haradinay - un «macellaio in tuta mimetica» l'ha definito Carla Del Ponte - incriminato per stragi di civili rom e serbi commesse già nel 1998, subito ricandidato come capolista dal suo partito, l'Alleanza per il futuro. E' così alta la consapevolezza di averla fatta «grossa», che Joachim Rueker ha voluto precisare che, di fronte a qualsiasi conflitto, la data potrà essere rimandata. La data, non le elezioni. E' l'ennesima vergogna dell'Onu in Kosovo - iniziata con l'ex governatore e attuale ministro degli esteri francesi Bernard Kouchner. Proprio mentre è in corso una difficile mediazione internazionale che vede impegnata l'Unione europea, con la nuova trojka negoziale (Usa, Russia e Ue) che annuncia negoziati diretti a fine settembre a New York.
In risposta, il segretario di stato serbo per il Kosovo Dusan Prorokovic in una intervista al New York Times il 6 settembre scorso ha detto che una dichiarazione unilaterale d'indipendenza da parte dei leader albanesi del Kosovo, giustificherebbe il dispiegamento delle forze armate serbe - com'è peraltro previsto nella risoluzione 1244 che assunse il trattato di pace di Kumanovo che pose fine alla guerra dei raid «umanitari» della Nato, riconoscendo, questo è il punto, che il Kosovo appartiene alla Serbia. Già il portavoce del Partito democratico serbo del premier Kostunica ha ammonito che, di fronte a gesti unilaterali, Belgrado valuta possibili risposte, come la proclamazione d'indipendenza delle zone ancora abitate da serbi, e anche il ritiro della partnership della Serbia con la Nato. Ora la convocazione di elezioni mentre c'è un braccio di ferro aperto sullo status definitivo, potrebbe essere la provocazione che fa precipitare gli eventi, di fronte allo stallo internazionale.
Si è chiuso infatti sabato in Portogallo il vertice Ue con al centro il Kosovo, soprattutto dopo le dichiarazioni del 3 settembre del ministro degli esteri russo Serghei Lavrov: «La questione dello scudo spaziale e quella del Kosovo - ha detto - non sono negoziabili». Al summit portoghese l'Ue ha verificato a parole l'urgenza di una risposta «univoca» a Putin. In realtà si è divisa. Ha fatto scivolare nel vuoto la lettera di Romano Prodi che invitava ad «aprire a Belgrado», con la concessione alla Serbia dello status di paese candidato. Per il commissario europeo all'allargamento Olli Rehn, Belgrado prima deve collaborare pienamente con il Tribunale dell'Aja. Un gigantesco nulla di fatto. Inoltre Spagna, Grecia, Ungheria, Slovacchia, con forti minoranze e indipendentismi o crisi simili (Cipro) vedono male un'altra, anacronistica indipendenza etnica che riaccenderebbe molte micce, subito nei Balcani (in Bosnia e in Macedonia). In conclusione Olli Rehn si è affrettato a comunicare dopo l'intervista del New York Times, d'essere stato rassicurato dal vice-premier serbo Bozidar Djelic sul fatto che non ci sarà uso della forza. Anche Belgrado è divisa sulla eventuale risposta: Boris Tadic e Vojslav Kostunica sono uniti contro l'indipendenza del Kosovo, ma il primo non muoverà le truppe, il secondo, pressato da parlamento, non dice di no.
Premono gli Stati uniti, pronti a riconoscere l'indipendenza se entro dicembre l'Onu non la proclamerà. Il 10 dicembre la trojka (Usa, Russia Ue) dopo il fallimento della «mediazione» Ahtisaari, presenterà un rapporto al Consiglio di sicurezza. E l'Italia - che motivava nel 1999 la guerra Nato in chiave umanitaria, nascondendo che serviva per una secessione - è contraddetta: da una parte vuole l'indipendenza etnica, dall'altra teme l'isolamento della Serbia ricacciata, a quel punto, in un abisso che ha già premiato alle recenti elezioni il movimento ultranazionalista dei Radicali serbi.
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