Orda contractor, a Kabul la guerra diventa privata
Kabul La sicurezza è un'ossessione con le gambe lunghe. Cammina e cammina innalzando muri sempre più alti, se è vero che l'ambasciata americana ne sta costruendo un terzo attorno al suo enorme compound diplomatico. Ma quest'aumento della sicurezza sembra comporti solo un più alto livello di organizzazione e di spesa che, come in Iraq (questa sì è irachizzazione del conflitto) si sta sempre più avvalendo di contractor privati, polizie speciali che qui in Afghanistan stanno ormai formando il terzo esercito dopo quello nazionale (che conterebbe 50mila soldati) e quello della Nato (40mila). A contare anche quelli esteri che sono la maggioranza - dagli americani ai mini-eserciti europei - forse l'esercito dei contractors sta per diventare addirittura il primo se, come ci racconta il capo della polizia di Kabul, in Afghanistan ci sono almeno 62 polizie private con un attivo che va dai 600 ai 2mila uomini per organismo. Azzardiamo 30mila unità. Un caos in nome della sicurezza che sta fortemente preoccupando il presidente Karzai, che sta adesso tentando di porre rimedio a questa crescente militarizzazione privata della guerra che mette in difficoltà la stessa polizia nazionale.
Ma se per gli internazionali le misure di sicurezza si incrementano giorno dopo giorno, per l'uomo della strada (e soprattutto per le donne) di sicurezza non ce n'è affatto. In centro sembra di essere in un fortino «ma quando alla sera le ragazze tornano a casa - dice Orzala Ashraf, una delle donne più attive nella battaglia dei diritti - in certi quartieri senza luce e senza mezzi pubblici, c'è da aver paura». Paura degli stupri, delle rapine, dei sequestri, un'attività in forte aumento e che nulla ha a che vedere con i talebani.
Passeggiando per Kabul, ad essere sinceri, almeno di giorno non c'è tutta quest'aria di insicurezza. Le strade sono affollate, come i bazar e i negozi, e la città sembra ostaggio, oltre che della polvere che la strangola in questi mesi freddi e secchi, di traffico e smog. Ovvio, l'insicurezza c'è, ma così a occhio è di due tipi. Se vi capita di essere vicino a un obiettivo militare talebano (polizia, esercito, ministeri), c'è il rischio di saltare in aria col kamikaze di turno. E' stato il caso ieri di quattro civili che, a sud della capitale, sono saltati su una mina posizionata probabilmente per colpire un convoglio Isaf. Poi c'è l'insicurezza di non sapere se anche oggi metterete assieme il pranzo con la cena, se ci sarà l'elettricità (che funziona per cinque ore soltanto) o se vostra figlia tornerà incolume da scuola. Quando calano le tenebre, la strada che dall'università riconduce a casa non è un luogo allegro.
Per rispondere all'insicurezza i soldati della Nato sembrano non bastare e dunque via ai contractor davanti ad aziende e uffici. Ma, ammesso che militarizzare di più sia la risposta che serve, il cittadino comune, quello che ha la luce per cinque ore, come fa? E come fanno quelli che la luce non ce l'hanno mai e che fanno apparire questa città, la notte, come una capitale sotto coprifuoco, animata solo dai lumicini delle candele e delle lampade a petrolio?
Al ministero degli Interni ci fanno passare dopo una discreta trafila. Il generale Ali Shah Paktiawal, un pashtun di quasi due metri con cui non vorreste litigare neanche facendo la coda al cinema, è guardato a vista e circondato da una cintura di sicurezza che filtra ogni persona. Il capo della polizia di Kabul ci riceve nel suo ufficio dominato da due imponenti gigantografie di Karzai, telefonino che squilla in continuazione e radio interna sempre accesa. E' rispettato ed è famoso, dicono, per aver messo le manette in diretta tv a un contractor straniero che lo contrariava. A lui il governo ha affidato l'opera di pulizia nel settore della sicurezza privata. La maggior parte delle società di contractor sono straniere e, con quelle afghane, sarebbero 62. Contano una marea di uomini. «Ce ne sono con 600 e ce ne sono con 2mila. Guadagnano 2mila dollari al mese mentre un poliziotto ne guadagna 70 o 80». E' contrariato, Ali Shah, e non lo nasconde. «Sicurezza? Questa gente fa affari, altro che sicurezza. E ho le prove - dice - che sono coinvolti in sequestri e rapine. Ho i documenti»". Ce li mostra rapidamente e cita il caso di una società locale che ha denunciato 11mila armi leggere e si è scoperto che ne possedeva 36mila. Tre volte tanto. «Dal 2001 in poi è iniziata questa storia fuori da ogni controllo. Ma - continua il superpoliziotto di Kabul - adesso deve finire. Il governo vuole rivalutare ogni singolo caso e controllare le licenze». Promette pugno duro e aggiunge, non senza orgoglio che «la polizia afghana può benissimo farcela da sola». Senza di loro, senza queste nuove figure professionali che abbondano a ogni angolo di strada e che si fanno pagare a caro prezzo. Promette controllo anche sulle armi per «sapere da dove vengono, come sono entrate nel paese» Ce la farà a controllare anche le società straniere? Intanto per il cittadino comune non cambia nulla. «Per lui - chiosa Orzala - l'insicurezza resta quotidiana e non è militarizzando di più il paese che le cose cambieranno». A Orzala, e forse a tutti gli afghani, la sicurezza dei propri diritti elementari sembra quella che interessa di più.
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