Il Kenya che vorremmo
Il 3 gennaio la tensione e’ cresciuta di ora in ora. La potevo misurare dal prezzo delle uova. Prima delle elezioni un uovo costava 6 scellini. Il mattino del 3 ne costava 8, nel pomerigio 10. A sera, dopo l’ annuncio dell’ opposizione che il 4 ci sarebbe stata un’ altra manifestazione di protesta, un uovo costava 12 scellini.
Ieri, il mattino del 4 verso le due ricevo un sms: “Kizito, siamo Kevin e Kenneth, i due acrobati. Vicino alla nostra casa di Kawangware c’e’ un grosso gruppo di mungiki, stanno progettando di dar fuoco a tutte le case dei luo. Possiamo rifugiarci da te, a Kivuli?”
Alle sei vado in auto verso la citta’. Strade vuote. L’ Uhuru Park circondato come ieri da poliziotti in tenuta antisommossa. Le schegge delle vetrine rotte di un supermercato che ieri e’ stato saccheggiato sono ancora sparse nel parcheggio.
Mi chiama padre Wanyoike: “L’ incontro dei giornalisti locali che avevamo pianificato per stassera deve essere cancellato. C’e’ una tensione enorme e tutti temono il peggio”.
Poi, verso le nove, si incomicia a capire che la manifestazione non ha nessuna possibilita’ di successo, e la tensione cala. Arrivano notizie che i manifestanti che si muovono verso l’ Uhuru Park sono poche centinai. Gia’ le migliaia che avevano manifestato il 3 erano immensamente lontani dal milione che Odinga aveva promesso di mettere in piazza, ma oggi sembra proprio che la gente sia stanca, prevale il bisogno di normalita’. Girano anche notizie che le due parti hanno deciso di dialogare. Alle dieci visito tre grandi supermercati che hanno appena riaperto le porte ai pochissimi clienti. Ma alle undici si e’ sparsa la voce della riaperture, le strade si riempiono di gente e di traffico, le donne degli slums arrivano con borsoni miracolosamente colmi di pomodori, cipolle, spinacci, e improvvisano mercatini anche sulle arteri pricipali. La gente si ferma, si contratta, i volti si distendono e si aprono in grandi sorrisi. E’ l’ Africa che conosco e amo. Forte, resiliente, amica, capace di sorridere anche nel dolore.
Faccio pranzo con un gruppo di acrobati, un incontro programmato da quindici giorni. Ken, lo stesso che dodici ore prima mi aveva mandato l’sms di panico ha un’ idea: “Domani invitiamo alla Shalom House tutti gli acrobati di Nairobi e facciamo una grande piramide umana. Ogni membro della piramide deve essere di una etnia diversa. E poi facciamo un comunicato di pace. Noi acrobati ogni volta che ci esibiamo dobbiamo avere una fiducia totale nel team, la nostra vita e’ nelle mani delgi altri. Cosi deve essere il Kenya”
Ha appena finito di parlare che la radio annucia che i tentativi di mediazione sono iniziati e Kibaki e’ perfino disposto ad una ripetizione delle elezioni.
Le difficolta’ politiche restano, e le posizioni delle due parti non sono per niente addolcite. Ma ci si parla, e si spera che i machete torneranno ad essere usati solo per tagliare la legna.
Poi la doccia fredda. Dal Western Kenya, da sms e telefonate arrivano notizie raccapriccianti. Si spera non siano vere, ma ancora una volta la notte e’ piena di fantasmi.
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