Superare l'Odio, senza rinunciare alla Giustizia
Sabato 5. La gente si muove normalmente, e’ un sabato mattina come tanti altri, con cielo limpido e un sole subito caldo. Prima delle otto vado a visitare una delle nostre case per ex-bambini di strada, Ndugu Mdogo. Quando entro sono tutti intorno ai tavoli apparecchiati per la colazione che stanno pregando. Una delle mamme mi spiega, sottovoce, che i bambini hanno loro stessi deciso di fare una preghiera speciale per la pace. Le preghiere sono lunghe e ripetitive, tutti ricordano i parenti a gli amici di Kibera, i feriti e i malati nell’ ospedale, i morti vittime della violenza. In tutte c’e’ l’impegno di mantenere la pace nella casa, di non essere tribalisti. Spesso si ripetono i nomi degli otti bambini ospiti della casa che erano andati passare il Natale con qualche parente e che non sono riusciti a tornare perche’ intrappolati dalla violenza. Ma anchne se le parole sono quasi uguali le espressioni che passano sui volti dei bambini sono diverse, ognuno ha le sue sfumature di paura, di sbigottimento e anche di rabbia. Quando hanno finito e attacano con determinazione il piattone di porridge col latte, Samuel, un quattordicenne di solito sempre allegro si sente in dovere di spiegarmi; “Non possiamo essere veramente in pace fino a che tutti i nostri otti fratelli che sono a Kibera non sono rientrati con noi”. Lo rassicuro, oggi ci si puo’ muovere senza difficolta’ e Jack andara’ a recuperarli uno per uno.
Si, la pace e’ tornata, almeno a Nairobi. E’ una pace difficile, le violenze dei giorni scorsi non possono essere cancellate cosi in fretta. Anche se gli episodi di violenza non si dovessero ripetere ci vorranno mesi per ritornare alla convivenza che era abituale fino a pochi giorni fa. Il rischio e’ che la soluzione politica della crisi, che sembra essersi avviata anche se le posizioni sono ancora lontane, prenda molto tempo e ci siano altri momenti difficili. Il risentimento che arde in molti keniani, sopratutto giovani che si vedono condannati ad una vita di poverta’, potrebbe ancora esplodere come violenza contro altri poveri. In occidente la disuguaglianza economica e sociale può essere affrontata attraverso la rappresentanza politica: partiti e sindacati possono portare queste istanze nei posti decisionali che contano. In Kenya tutto questo precipita nell’etnia, che maschera un conflitto che è prima di tutto economico e sociale. A Riruta, a Kawangware, a Kibera non si odia il landlord perché è kikuyu o luo, ma perché mi sfrutta, perché vive “alle mie spalle”.
Ordinariamente il risentimento viene gestito o attraverso un appartenenza religiosa – spesso seria e convinta – o “tenuto a bada” dall’alcol, dalla droga, e si sfoga individualmente nelle violenze domestiche e quotidiane. Tutto ciò non elimina le cause del risentimento, lo sopisce, ma è lì che cova pronto ad esplodere. Serve un “collante” che faccia confluire l’individuale nel collettivo, in qualcosa che riguarda tutti. L’etnia può essere utile allo scopo e dato che il fine giustifica i mezzi in ogni partita politica del mondo, la si usa. Come ha scritto il sociologo Fabrizio Floris che ha vissuto per mesi negli slums di Nairobi ed ha scritto libri anche ricchi di partecipazione emotiva, “si tratta di mascherare le ragioni del conflitto sociale, dare altri nomi e altre origini allo stesso. Usare parole persuasive e ripeterle in modo ossessivo finché non diventano vere. E’ la prima regola della sociologia “se qualcuno ritiene che un fatto sia vero questo lo diventerà nelle sue conseguenze”. Ma se i poveri insorgono nessuno può prevedere gli effetti di queste conseguenze”. Le responsabilita’ sono di chi li ha manipolati.
Resta una nube nera, il pensiero di cio’ che sta veramente avvenendo nelle zone piu’ isolate del Western Kenya. Le notizie frammentarie e impossibili da verificare che ci arrivano non sono per niente confortanti.
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