Conflitti

Un discorso più che da pacifista, da grande maestro spirituale

Abhaya: liberare la mente dalla paura

Il suo richiamo alla ‘rivoluzione dello spirito’ e della mente risponde molto bene al nostro modo di intendere il contributo che ognuno dei milioni di nessuno di cui ci onoriamo di far parte può dare al cambiamento in atto
9 gennaio 2008
Daw Aung San Suu Kii


Daw Aung San Su Kii Questa bellissima donna è Daw Aung San Su Kii, il simbolo dell’anelito alla democrazia del popolo birmano.

Figlia dell’amatissimo e ormai leggendario Generale Aung San, che liberò la nazione da 60 anni di dominio britannico nel sogno di un futuro in cui le diverse genti che la popolano possano autogovernarsi in armonico rispetto delle proprie diversità, 40 anni dopo l’assassinio di questi a opera dei militari che poi si approprieranno del potere e tuttora lo detengono, torna in patria per onorarne la memoria e realizzarne il sogno attraverso un impegno civile non violento. Le elezioni e un plebiscito la indicano come unico leader riconosciuto del paese, ma il regime non solo annulla questo risultato, ma condanna Daw agli arresti domiciliari. Da 20 anni “la signora” (cosi è ribattezzata dato che il suo nome è bandito dal regime) vive nell'isolamento del suo domicilio nella capitale, Yangon, presidiata da militari. Sapendo che, se uscisse dal paese, i militari le impedirebbero di tornare, per non lasciare il suo popolo non può essere presente alla morte dell'amato marito, un docente di Oxford, e non può ritirare il premio Nobel per la pace a lei conferito.

Il brano che segue è tratto da uno dei suoi numerosi discorsi e scritti.


Piccoli monaci birmani

Ciò che corrompe non è il potere, ma la paura. La paura di perdere il potere corrompe coloro che lo detengono; la paura della sferza del potere corrompe coloro che lo subiscono.

In un’epoca in cui immensi avanzamenti tecnologici hanno creato armi letali che potrebbero essere – o sono – usate dai potenti e da quanti sono privi di principi per dominare i deboli e gli impotenti, c’è il bisogno urgente di una relazione più stretta fra politica ed etica, a livello sia nazionale che internazionale.

La rivoluzione “quintessenziale” è quella dello spirito, nata dalla convinzione intellettuale del bisogno di cambiare quegli atteggiamenti mentali e valori che determinano il corso dello sviluppo di una nazione. Un rivoluzione volta al mero cambiamento delle politiche e delle istituzioni, pur se con un occhio al miglioramento delle condizioni materiali, ha ben poche possibilità di un vero successo.

Senza una rivoluzione dello spirito, le forze che hanno prodotto le iniquità del vecchio ordinamento continuerebbero a essere operative, esercitando una costante minaccia sul processo della riforma e della rigenerazione. Non basta il richiamo alla libertà, alla democrazia e ai diritti umani. Ci dev’essere una determinazione congiunta da parte di tutti a perseverare nella lotta, a fare sacrifici in nome di verità durevoli, a resistere alle influenze corruttive della bramosia, della malevolenza, dell’ignoranza e della paura.
Secondo la filosofia dell’antica India, “Il dono più grande per un individuo o una nazione è abhaya, l’assenza di paura: non il semplice coraggio fisico, ma assenza della paura dalla mente.”

L’assenza di paura può essere un dono, ma forse più prezioso è il coraggio acquisito attraverso l’impegno durevole; il coraggio che viene dal coltivare l’abitudine di rifiutarsi di lasciar guidare le proprie azioni dalla paura; il coraggio che potrebbe essere descritto come “grazia sotto pressione”: una grazia che si rinnova continuamente a fronte di una pressione dura e impietosa.

Un’insidiosissima forma di paura è quella che si maschera da buon senso o persino da saggezza, condannando come folle, sconsiderato, insignificante o futile i piccoli atti quotidiani di coraggio che aiutano l’uomo a conservare il rispetto di sé e la propria intrinseca dignità. Non è facile liberarsi dagli snervanti miasmi della paura per un popolo condizionato dalla paura sotto la regola ferrea del principio che la forza è giusta. Eppure persino sotto la macchina frantumatrice più potente il coraggio si alza e si rialza in piedi più e più volte, perché la paura non è lo stato naturale dell’uomo civilizzato.
L’inesauribile miniera del coraggio e della resistenza a fronte di un potere sfrenato è generalmente il credere fermamente nella santità dei principi etici combinati con un senso storico del fatto che, in qualunque situazione, le condizioni umane sono in ultima analisi destinate al miglioramento sia spirituale che materiale. Ciò che maggiormente distingue l’uomo dal bruto è la capacità di auto-miglioramento e di auto-redenzione. Alle radici della responsabilità umana ci sono il concetto di perfezione, la spinta a raggiungerla, l’intelligenza per trovare un sentiero verso di essa e la volontà di seguire quel sentiero, se non fino in fondo, almeno per la distanza necessaria per sollevarsi al di sopra delle limitazioni individuali e degli impedimenti ambientali. È la visione di un mondo fatto per un’umanità razionale e civilizzata, che spinge l’uomo a osare e soffrire per costruire società libere dal bisogno e dalla paura. Concetti quali verità, giustizia e compassione non possono essere liquidati come “triti”, quando spesso sono i soli bastioni difensivi contro un potere spietato.


Note: Articolo originale di Daw Aung San Suu Kyi, traduzione di Gabriella Campioni per PeaceLink.
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