Sperando in un Kenya diverso
A Korogocho, una tra le più grandi baraccopoli di Nairobi, gli scontri sono iniziati la sera del 29 dicembre. Due giorni dopo le elezioni presidenziali e prima ancora che la commissione elettorale proclamasse vincitore il presidente uscente Mwai Kibaki. Quella notte sono state uccise sette persone, tra cui due bambini e una donna. Appartenevano all’etnia luo. Il 30 dicembre, le violenze sono scoppiate negli slums delle grandi città keniane: Nairobi, Mombasa, Eldoret, Kisumu. Tra i più disagiati era diffusa la speranza che il nuovo governo cambiasse le cose. Di fronte ai brogli, l’indignazione ha fatto presto a trasformarsi in ira. Kisumu, la città di origine del candidato dell’opposizione Raila Odinga, è stata quasi rasa al suolo dalle proteste. Altrove, come a Nairobi, gli scontri si sono concentrati negli slums e se si gira per la città oggi, non ci si accorge di niente, mentre nelle baraccopoli come Kibera, Kawangware, Mathare, Kariobangi, Huruma o Korogocho invece, trasuda una tensione molto forte.
Per tentare di smorzarla, a Korogocho, con una cinquantina di pastori di chiese diverse abbiamo organizzato, lo scorso 9 gennaio, un grande momento di preghiera, proprio sul confine che divide la zona luo e quella Kikuyu, una frontiera che si sta allargando sempre di più con case saccheggiate, bruciate e abbandonate. A Korogocho, abbiamo visto molto sangue, molte armi, molti corpi feriti, molte persone morire.
Ora la situazione sembra più tranquilla nella capitale, ma non nel resto del paese. È una calma strana, precaria, che può riaccendersi in qualsiasi momento. Le trattative, guidate dall’ex segretario generale dell’Onu, Koffi Annan, hanno portato alla firma di un primo accordo di pacificazione, il primo febbraio, tra il presidente Mwai Kibaki e il leader dell’opposizione Raila Odinga.
Questo accordo politico è solo un primo passo. Rimane un lavoro enorme da fare, perché si è rotto un equilibrio sociale che da tempo si cercava di costruire, soprattutto con le nuove generazioni. A Korogocho, stiamo cercando di far dialogare i giovani di etnie diverse. A scuola, a lavoro, nei commerci, si mescolano persone di tutte le etnie. Per anni c’è stata una convivenza pacifica tra queste persone, che tutto a un tratto sono state mandate via dalle loro case per via della propria origine etnica.
Il governo ha reagito in maniera rigida e arrogante alle rivolte dal 30 dicembre, la polizia spara a uomo. Sono morte circa mille persone in poco più di un mese, di queste, molte sono state uccise dalla polizia. Nelle zone a maggioranza Luo, i Kikuyu vengono molto spesso mandati via, derubati o uccisi, mentre nelle zone a maggioranza Kikuyu, ai Luo viene riservato lo stesso trattamento per rivincita. Sono circa 300 mila gli sfollati.
Non significa che ci sia un piano di terrore, come ha lasciato intendere il leader dell’Orange democratic party, ma di certo la situazione sta scappando di mano a Kibaki e Odinga. Da ambedue le parti, poi, ci sono gli “hardliners”, quelli della linea dura, che rifiutano ogni dialogo. Ma c’è di mezzo un popolo composto da quarantadue etnie. Niente a che vedere con il Rwanda, dove ci sono solo due etnie, nonostante i media ripetino ossessivamente il paragone. Bisogna riuscire a dare le informazioni giuste. A questo proposito, vorrei lanciare un appello ai media italiani: dire che il paese brucia, parlare di guerra civile, delle bombe sganciate dagli elicotteri, non è corretto. La situazione non è facile, ma esagerare non aiuta, anzi, uccide anche noi che ci viviamo qui in maniere diverse.
Guerra civile vuol dire aver la milizia, vuol dire avere dei gruppi armati organizzati e contrapposti. Non è quello che sta accadendo in Kenya. In tante parti del paese, da Eldoret a Naivasha gli scontri sono stati sporadici. E’ innegabile che si sia aggiunta anche una dimensione etnica. E più andiamo avanti più questo rischio cresce. In molti traggono vantaggio di questa confusione per derubare e saccheggiare. A Korogocho, si è per esempio assistito diverse volte a furti massicci: i ladri Kikuyu terrorizzano la gente gridando che i Luo stanno arrivando e gli altri fanno altrettanto nelle loro zone e approfittano della confusione per penetrare nelle abitazioni e derubare.
Ma non è un caso se le rivolte sono partite dai quartieri più poveri delle città. È utile ricordare che il principale problema del paese è legato alla distribuzione della terra. Dopo l’indipendenza, la terra è andata a poche etnie, tra cui l’etnia Kikuyu, quella del presidente Kibaki, che si è sparsa in tutto il paese e ora è sotto bersaglio. Durante la campagna elettorale, i due partiti in lizza non sono stati in grado di fare una campagna unitaria, veramente nazionale. I risultati si sono visti abbastanza bene: Kibaki ha vinto quasi esclusivamente nella zona centrale del paese, a maggioranza Kikuyu, ma non nelle altre parti. Odinga da parte sua ha stravinto nella sua zona di origine ma è riuscito a raccogliere molti voti anche in altre 6 province.
Ciò che sta avvenendo è frutto di una frustrazione e di una divario sociale enorme. Quasi il sessanta per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. Nel paese, terzo produttore mondiale di fiori, dove più dei due terzi del territorio sono occupati da zone desertiche e semi-desertiche, la questione della suddivisione della terra non è mai stata risolta, è rimasta in mano a un’élite Keniana anche dopo il colonialismo inglese , che l’ha rubata e usata politicamente, per esempio per comprare le resistenze dell’opposizione. Terra non solo per ricchi keniani, Kikuyu o altri, ma anche multinazionali come la Del Monte o tante altre.
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