Conflitti

Cronaca quotidiana

Un 17 marzo a Mitrovica

Racconti di un volontario
28 marzo 2008
Raffaele Coniglio (Project Manager per conto della Provincia di Gorizia a Mitrovica)

La giornata del 17 marzo inizia presto anche per me. Alle 8.00 apprendo degli scontri appena iniziati a Mitrovica nord dopo la decisione ferma di UNMIK, per il tramite del suo più alto funzionario Joackim Rucker, di volervi ripristinare l’ordine e la legalità. Senza tanta esitazione, incoraggiato dall’aroma di caffè che esce dalla moka e non certo dalla pioggerella che sta venendo giù, decido di prendere il primo autobus per raggiungere Mitrovica. Il telefono inizia a squillare, ma poco posso fare quando con un messaggio l’Ufficio Italiano invita i suoi connazionali che risiedono a Mitrovica a starsene riparati a casa. Avevo ormai deciso di raggiungere la città divisa. Così è stato. La parte sud della città, quella albanese, indifferente di quanto stava succedendo oltre il fiume, ma ben informata dei fatti, si accingeva a riversarsi per strada e nei caffè, nel mercato di frutta e verdura, nei tanti negozi di telefonia. L’indifferenza degli albanesi mi ha fatto pensare al meglio, al fatto cioè che doveva trattarsi di una montatura ben architettata quella al nord. Decido quindi di fare il passo successivo e di raggiungere il ponte principale della città. Giunto sul posto anche lì trovo poca gente che incuriosita guarda i circa quaranta poliziotti UNMIK. Poca cosa se si pensa al fatto che la prassi normalmente è di circa cinque- dieci poliziotti. Ho così capito che la partita si giocava da un’altra parte e con altri protagonisti. Al Bosnian Mahalla, il quartiere bosniaco della città, abitato prevalentemente da bosniaci e albanesi, era tutto militarizzato. L’entrata è situata ad est della città, ma il quartiere si estende tra il nord ed il sud. Al mio arrivo i miei occhi non vedono altro che corazzati di tutte le forme, saranno stati più di 40 carri armati quelli lungo il bordo della strada, ma non sono riuscito a contare i tanti parcheggiati in una stazione appositamente creata, dove sostavano autoambulanze, ruspe e scorte varie. Nessuna traccia dei francesi che hanno il controllo della città, solo gli spagnoli: chiacchero con Manuel, Maggiore di Cadiz, cercando di smorzare i toni, conscio, questa volta sì, della drammaticità della giornata. Alle 12.30 circa, soltanto dopo il passaggio del lungo convoglio KFOR che si dispiegava nel nord per prevenire eventuali disordini che potevano verificarsi durante la quotidiana manifestazione delle 12.44 organizzata dagli studenti universitari, mi sono fatto coraggio e mi sono diretto anch’io, cercando di mimetizzarmi, nella zona nord. Ancora adesso non riesco a capire se era più forte l’emozione e la gioia per aver vissuto dal vivo quei momenti o la paura. Certo la lucidità e familiarità con questi luoghi mi hanno permesso di raggiungere attraverso strade secondarie la piazza centrale che si presentava strapiena di giovani felpati e uomini corpulenti. Mi trovavo ad appena 10 metri dal caffè Paris, di proprietà di un italiano sposato a Mitrovica da più di 9 anni. Ero venuto a conoscenza di Ivano da un articolo comparso sulla stampa italiana appena due mesi fa. Senza conoscerlo nè sapere nulla di più di lui decido di fargli visita. L’unico interrogativo che mi sono posto in questa giornata tesa è stato quando dovevo decidermi se affrontare o meno gli sguardi interrogativi di tutti quei giovanotti seduti in quel momento al caffè e le loro eventuali reazioni. Per dirigermi dove?Per parlare con chi? In quale lingua? Il pericolo che veniva da fuori non era inferiore a quello che potevo trovare dentro. Senza troppe esitazioni e con un certo desiderio di parlare in dialetto calabrese a Mitrovica, mi sono ritrovato dopo 5 minuti seduto al tavolo con Maxo e Stojan, due dei camerieri-gestori del locale. Ho chiesto a Maxo dov’era “Macrì” (non ricordavo il nome) e lui con grande disponibilità lo ha subito contattato al cellulare. Prima dell’arrivo di Ivano, Stojan e Maxo mi hanno illustrato gli eventi della giornata, facendomi sentire totalmente a mio agio nonostante avessi tutti gli occhi degli avventori ancora puntati addosso. Si è parlato a lungo del trentenne presunto morto in seguito agli scontri della giornata. I due sono rimasti con me fino all’arrivo di Ivano e sua moglie. Ivano mi ha raccontato la sua storia. Qui a Mitrovica da 9 anni è ben inserito, conosce tanta gente e manda avanti questo locale di sua proprietà. La mia domanda su come avessero reagito i suoi familiari serbi al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte dell’Italia, non lo spiazza per nulla. Nel ricordarmi che l’Italia non era stata l’unica a riconoscere l’indipendenza, sottolinea che tutti conoscevano la sua personale presa di posizione. Nove anni sono tanti per non sentirsi addentro alle vicende del Kosovo, a maggior ragione in un posto come Mitrovica e con dei forti legami affettivi. “Caro Raffaele, è come se la nostra Calabria, sempre più popolata da rumeni, da qui a cento anni la dichiarassero indipendente”, mi diceva in modo spicciolo. L’aria era tranquilla, seria come ogni giorno a Mitrovica, con gli sguardi persi dei giovani del bar sullo schermo che faceva scorrere le immagini degli scontri freschi di giornata. Il paragone fatto da Ivano mi sembrava poco appropriato ma non non credevo fosse nè il luogo nè il momento giusto per analizzare i diversi punti di vista. Pochi secondi dopo, il locale si svuota. Tutti corrono per strada, e così anche io e Ivano. Forse per un falso allarme, forse distratti dalla televisione, quasi come si fossero dimenticati di dover prendere parte alla manifestazione delle 12.44. La rapidità con cui si sono alzati e si sono messi il giubbino mi ha fatto riflettere su quanto l’agitazione ed il nervosismo fossero ben mascherati da calma apparente. È stato lì che anche Ivano mi ha mostrato di essere teso, o forse semplicemente io, avendo trovato un ragazzo calabrese, pensavo per questo di poterci chiaccherare con tranquillità più a lungo. Non era però il momento adatto per approfondire la conversazione e anche Ivano mi ha suggerito di dirigermi al sud. Così ho fatto. Mi sono congedato da lui che gentilmente si è offerto di scortarmi fino a quasi il ponte. Non potevo però, a questo punto, non seguire la manifestazione organizzata dai giovani universitari, che si sarabbe tenuta di lì a poco. Mi frullavano in testa le parole che un attimo prima Stojan mi aveva detto al bar, quando commentando le scene in televisione ripeteva che la gente oggi era molto amareggiata a Mitrovica nord, non si sarebbe aspettata da parte delle forze internazionali una reazione del genere, tanto aggressiva in una ricorrenza così amara. Erano molto più nervosi oggi (17 marzo), diceva Stojan, perchè colti di sorpresa, piuttosto che il giorno in cui era stata proclamata l’indipendenza, già preventivato. Giusto il tempo di trovare rifugio dietro ai pilastri della schiera di palazzi a ridosso del ponte, che scende un flusso di persone, almeno 250, che inveendo contro gli occupatori e sventolando bandiere serbe hanno marciato comunque pacificamente fino a raggiungere il monumento, situato sul ponte, eretto in onore dei caduti serbi durante i bombardamenti Nato. La manifestazione molto composta è rimasta poi per più di un minuto in religioso silenzio commemorando appunto i suoi morti. Un cordone di persone ai lati della strada, sicuramente per ripararsi dalla pioggia, seguiva con gli occhi questo evento. Tra questi anche due energiche signore che notando due giornalisti con una telecamera si sono dirette immediatamente a loro chiedendoli la nazionalità. Ritornando col sorriso ad alta voce ripetevano Russia, Russia. Come per dire sono nostri amici, non temete. Sono stato raggiunto dal sorriso penetrante della signora. Il suo sguardo è caduto su di me che cercavo silenziosamente di mimetizzarmi e di seguire la protesta. Era inevitabile che mi rivolgesse la parola. Non conoscendo il serbo ho cercato di non rispondere fino a quando potevo. Quando, muovendo anche le mani, è riuscita chiaramente a farmi capire che voleva sapere chi fossi, ho semplicemente aperto bocca per pronunciare “italiano”. Sono seguiti pochi frangenti di secondi prima che decidessi di fare marcia indietro e allontanarmi rapidamente. La voce sempre più sostenuta della cinquantenne che mi sollecitava ad andare dall’altra parte del ponte, iniziava ad incuriosire i nostri vicini. A queste parole, ed alle occhiate concentrate tutte in quei soli istanti, nulla ha potuto la richiesta di un giovane serbo che in inglese mi invitava a restare calmo per non creare interesse attorno a me. Mi sono precipitosamente allontanato. Girando l’angolo ho percorso di corsa il quartiere bosniaco per dirigermi a sud dalla via più lunga. L’accesso dal ponte principale, distante da me poche decine di metri, era infatti sbarrato.
Col fiatone entro allora nell’unico bar presente al quartiere bosniaco, a pochi metri dal blindato dove poche ore prima avevo lasciato Manuel. Dentro tanta gente intenta a seguire in tv gli eventi del giorno che ormai ininterrottamente si susseguivano. Il tempo di respirare e ridare fiato ai miei polmoni che ho subito capito a cosa sarei potuto andare incontro poco prima. In mente infatti potevo soltanto immaginare le scene che avevano visto protagonista un fotografo italiano che era stato privato della sua telecamera. Ivano ricordava bene l’accaduto ma non il nome della persona. Anche se poteva trattarsi ancora di un’altra falsa notizia che circolava in quella giornata, l’agitazione era alta. Ho trascorso in quel bar le due ore seguenti, dapprima parlando con Bekim, un albanese vecchio conoscente, che mi raccontava di sentirsi al sicuro in quel bar insieme agli altri suoi amici, certo non per le armi ed i blindati di KFOR fuori dalla porta ma per le armi che tutti i cittadini del Bosnian Mahalla hanno. Poi affronto una conversazione storico-politica con Veton Vidishiqi, un negoziante del quartiere che aveva pensato bene di non aprire la sua attività quel giorno. È stata una conversazione interessante ma molto particolare, Veton, sebbene apprezzasse il risultato dell’indipendenza non lo elogiava più di tanto. Era, a suo dire, un buon risultato ma ribadiva di non andarne tanto fiero. Nella conversazione mi sembrava di essere io quello che difendeva gli albanesi e la presa di posizione americana, mentre lui faceva presente che, sebbene sofferta, non era un’indipendenza piena ed elogiava invece, ripercorrendo tutte le tappe storiche più importanti, il coraggio combattivo ed il valore del popolo serbo, riferendosi anche agli eventi di oggi. La giornata si è conclusa con questa insolita conversazione. Risulta infatti difficile sentire da ambo le parti una versione differente rispetto a quella ufficiale. Ritornando a casa sotto la pioggia ho riflettutto ancora una volta su quanto complesso era capire i Balcani, la sua storia e la sua gente. Certamente quello che è successo ieri avrà delle ripercussioni soprattutto sulla normale dialettica tra comunità internazionale da una parte e Serbia dall’altra.

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