Conflitti

Dopo l'11 maggio

Post-elezioni in Kosovo

3 giugno 2008
Raffaele Coniglio

L’11 maggio è passato e le elezioni serbe in Kosovo si sono tenute in un clima sereno e tranquillo. Non sono stati riportati importanti brogli elettorali nè scontri ai seggi, tranne un unico caso isolato in un’enclave serba tra un piccolo gruppo di elettori e la commissione. Fatto irrisorio comunque. Di questa domenica di maggio due elementi balzano agli occhi: una discreta affluenza alle urne e l’espressione di un voto radicale. Il partito di Nicolic (SRS) ha fatto il pieno dei voti qui in Kosovo.
La vittoria dell’ala più morbida e filo-europea è sicuramente un ottimo risultato e potrebbe aprire scenari nuovi e più colorati, non da ultimo l’implementazione dell’Accordo di Associazione e Stabilizzazione che aprirà la strada alla cooperazione economica –milioni di euro quindi- tra l’Unione Europea e la Serbia, con risvolti positivi per il Kosovo stesso.
Questa vittoria di Tadic, il carismatico leader del Partito Democratico (DS), è stata accolta con un certo gradimento dagli ambienti politici kosovari e dalla sua stessa società civile. Ci si augura, pertanto, che aria fresca possa presto arrivare qui in Kosovo nella calda stagione estiva alle porte, dopo aver compreso, però, che quest’ultimo voto uscito dalle urne del Kosovo (115.000 erano i cittadini registrati) è un voto estremista che racchiude malcontento e rabbia, in controtendenza rispetto al resto della Serbia.

É bene fare un passo indietro e cercare di inquadrare il contesto in cui sono maturate queste elezioni. Praticamente in seguito all’autoproclamazione dell’indipendenza del Kosovo ed ai disaccordi venutisi a creare all’interno del governo Kostunica, quest’ultimo per queste ragioni l’8 Marzo si dimette. Nove giorni dopo (17 Marzo) avvengono gli scontri a Mitrovica per l’occupazione del tribunale penale da parte di un gruppo di dipendenti stessi. Nel corso di tali scontri un giovane di vent’anni, soldato di nazionalità ucraina della Kfor, perde la vita ed altre 150 persone, tra dimostranti e soldati del contigente Kfor, rimangono feriti. Sul caso ci sono ancora accertamenti in corso ed un team dell’ONU composto da quattro esperti è venuto appositamente da New York per svolgere le dovute indagini e cercare di ricostruire l’accaduto. Ma quel che è certo è che sono state commesse alcune leggerezze da parte di Unmik, nel consentire prima e per un arco di tempo lungo (4 giorni) l’occupazione del tribunale, e come conseguenza di ciò, l’aver deciso di intervenire, per allontare gli occupanti, proprio il 17 marzo giorno dell’anniversario degli scontri del 2004, ben più tragici di quest’ultimi. La decisione di occupare il tribunale, da parte del gruppo serbo, è stata indubbiamente un atto forte, illegale, l’ennesimo atto di forza commesso dalla Serbia nei confronti di Unmik. Una cosa è certa: il tribunale non andava occupato ma anche Unmik non doveva intervenire proprio quel giorno, anche se poco o nulla sarebbe cambiato sul piano mediatico. Intervenire infatti due giorni prima o uno dopo non avrebbe cambiato nulla (i fatti di marzo del 2004 si svolsero dal 16 al 19). Da allora però molte Organizzazioni internazionali operanti a Mitrovica nord hanno dovuto fare i conti con una popolazione provata, amareggiata e diffidente verso il personale internazionale, ed hanno dovuto fare marcia indietro, arretrando o azzerando il lavoro implementato in anni. Inutile però dilungarsi su questo fronte che occupa un’altro capitolo. Altro elemento intercorso durante questo breve periodo, avvelenando ulteriormente il clima e l’animo della popolazione serba, è stato il verdetto finale del Tribunale Internazionale dell’Aia che non ha ritenuto colpevole per i reati di genocidio, stupro e violenze Ramush Haradinaj, l’ex Primo Ministro del Kosovo, riabilitandolo quindi come leader kosovaro.

E’ in questo clima che si è tenuta la breve campagna elettorale, e per di più in un momento di piena crisi Unmik sopraggiunta dopo tale evento. Nell’ultimo periodo, 18 marzo-10 maggio, Unmik ha cercato, ma ancora non c’è riuscita, una possibile via d’uscita e di tenuta alla crisi che la sta attraversando –crisi di management e di leadership al vertice, mentre la Serbia ha tentato più volte di forzare la mano, prima con l’invio di ingenti aiuti umanitari dalla Russia di Putin indirizzati alle enclaves serbe del Kosovo senza chiedere il dovuto coinvolgimento nelle procedure e nella gestione di tali aiuti a Unmik e le istituzioni kosovare (evento che ha creato non poco imbarazzo tra la comunità internazionale presente in Kosovo ed Unmik stessa). Poi, nonostante il parere contrario dell’amministrazione internazionale in Kosovo, i centri decisionali a Belgrado hanno deciso di tenere anche qui nella loro provincia le elezioni per il rinnovo del Parlamento e delle amministrazioni locali. L’impasse causata dalla titubanza iniziale e non-decisione in merito da parte di Unmik è stata superata dal loro acconsentire solo alle elezioni politiche sul territorio, in quanto viene riconosciuta ai serbi kosovari la doppia cittadinanza. Non sono state autorizzate invece le elezioni per il rinnovo dei comuni. Rucker, numero uno di Unmik, è stato lapidario al riguardo anche il giorno delle elezioni con dichiarazioni che non lasciavano nessun possibile fraintendimento: “Queste elezioni sono illegali”; “Elezioni illegali non potranno avere conseguenze legali”. Nonostante ciò, e con un basso profilo di Unmik, l’ennesimo, le elezioni di Maggio si sono tenute in un clima di assoluta tranquillità. È bene ricordare che in base alla risoluzione ONU 1244, ancora in vigore, Unmik ha il diritto e il potere di amministrare il Kosovo (lo sta facendo dal 1999) e, in veste di questo incarico, è l’unica e la sola autorità che può autorizzare le elezioni in Kosovo ed in tutto il suo territorio, che è ancora, in forza della stessa risoluzione, considerata una provincia della Serbia. Questo è uno dei tanti paradossi della politica internazionale. Tale clima ha preceduto dunque il voto dell’11 Maggio in Kosovo. Ma si spera aria nuova arrivi presto. Potrebbe essere giunta l’ora di voltare pagina per quel che riguarda la gestione generale che sino ad ora è stata fatta del “Caso Kosovo” ed aprire un nuovo capitolo. C’è ancora tempo per avviare un costruttivo dialogo tra i serbi e gli albanesi kosovari, con il dovuto supporto della comunità internazionale. Ci sia augura che quest’ondata blu-europea rinfreschi l’aria portando idee nuove e costruttive, fosse solo per risolvere l’affannosa questione della popolazione serba in Kosovo. Questo è possibile ad almeno una condizione e cioè che Belgrado, percependosi ora più ad ovest di quanto immaginava prima e non servendosi più del salvagente russo, cambi atteggiamento nei riguardi del Kosovo delle istituzioni di Unmik e dei cittadini serbi che vivono qui. La politica cieca e ostruzionista di chiusura verso le istituzioni del Kosovo ha avuto conseguenze negative proprio sui serbi stessi che vivono qui, sulla loro libertà di movimento e di partecipazione alla cosa pubblica. Belgrado avrebbe ottenuto di più facendo partecipare i serbi, in varie forme e modi, alle istituzioni del Kosovo in maniera unitaria ed organica, anche per cercare di lottare dal di dentro avanzando proposte fattibili ed alternative a quelle albanesi, e riservandosi eventualmente in seguito a disaccordi il diritto di manifestare il proprio dissenso con forme legittime di proteste. Oggi è bene che si inizi a dare peso e spessore alle esigenze e alle richieste dei tanti serbi che vivono in Kosovo allentando una volta per tutte la corda del ricatto e del controllo (le armi del passato). Bisogna ripartire dal basso, dalla strada maestra, ed avviare quantomeno forme embrionali di dialogo tra le parti. Sino ad ora e per tutti questi nove anni ciò è mancato, in tutte le sue forme ed espressioni e a tutti i livelli della politica. Non esiste un incontro alla luce del sole, una conferenza –Vienna a parte-, un minimo contatto formale tra le due parti, figurarsi una foto che immortali la stretta di mano tra i leaders. Si vociferava poco tempo fa di un presunto incontro dietro le quinte del palazzo di vetro a New York tra Thaci (Primo Ministro del Kosovo) e Tadic (Presidente della Serbia), categoricamente smentito da uno dei due.
Tutto ciò è grave e la comunità internazionale dovrebbe interrogarsi su questo. È sua infatti una gran fetta di responsabilità. La creazione di barriere, simboliche e non, sono un nostro prodotto e di questo Mitrovica è il risultato più emblematico: una città praticamente divisa in due parti nette, distinte e contrapposte. Questa classica politica del “divide et impera” ha maturato questo frutto bastardo. La comunità internazionale scesa in campo ad interporsi tra le due opposte realtà non poteva e non può permettersi il rischio di perdere tra i suoi uomini delle vite umane. Timorosa di ciò ha come tenuto legati ad una catena due pitbull (continuamente maltrattati dai loro rispettivi padroni) che con il passare del tempo si sono via via sempre più inferociti bavando di rabbia. Si potrebbe supporre che se lasciati liberi di esprimersi, sotto la supervisione del loro guardiano, in un primo momento abbaieranno animosamente, ma finiranno, quando non sentiranno più il fiato di altri sul collo, con l’annusarsi, accettarsi l’un l’altro e condividere poi lo stesso recinto. Questa metafora potrebbe spiegare l’ovvia conclusione che la dialettica sino ad ora portata avanti solo dall’alta diplomazia è servita a poco. Tale politica che ha fatto del “Caso Kosovo” una partita tra Usa e Russia, delicata per gli equilibri geopolitici mondiali (con forti influenze sugli altri attori, Belgrado inclusa), non ha certo risolto concretamente ed in maniera duratura i destini di chi il Kosovo lo popola e che proprio per questo, mi riferisco ai serbi del Kosovo, in più occasioni e su questioni pratiche, hanno mostrato alternative diverse a quelle volute ed attuate da Belgrado.

Note: il contenuto di questo articolo sono analisi personali che non riflettono il pensiero dell’organizzazione per cui lavora

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