Italia sotto protezione iraniana in Afghanistan
Quello che Dal Lago non ricorda nel suo articolo per il "Manifesto" (di seguito riportato) è che le truppe italiane nell'Afghanistan si sono piazzate nella regione di Herat, praticamente sotto - condizionata - protezione iraniana.
Va premesso che il nostro Paese è il principale partner commerciale dell'Iran nel mondo: questo conterà pur qualcosa. Importa petrolio. E lascia che la droga fluisca dall'Afghanistan all'Europa, passando appunto per l'Iran via Herat.
Giorgio Beretta, della RID, ci ricorda qualche dato sull'interscambio Italia-Iran: "Da una ricerca di Unimondo sul database del commercio estero dell'Istat, nel solo 2008 l'Italia ha esportato in Iran merci per un valore di oltre 13,6 miliardi di euro. E la progressione è crescente: si passa dai poco meno di 200 milioni di euro del gennaio 2008 a quasi 2,2 miliardi di dicembre dello stesso anno. La bilancia commerciale è comunque a favore di Teheran: nel 2008 L'italia ha infatti importato merci - e soprattutto petrolio - per un valore di oltre 25 miliardi di euro".
L'Italia nell'Herat in cui si è stabilita gestisce il PRT (Provincial Reconstruction Team) ed è responsabile delle quattro province della sua regione Ovest.
Le popolazioni qui, pur essendo di religione sunnita, parlano però la lingua "dari", variante del persiano, le loro organizzazioni guardano a Teheran, ma confinano con la ostile presenza pashtun.
Farah, la provincia dove è morto il parà italiano, confina con lo Helmand, dove Obama ha scatenato la sua "grande offensiva" in vista delle elezioni del 20 agosto e dove l'"insorgenza pashtun" è forte, dura e bene organizzata.
Nella città di Farah gli americani hanno realizzato una nuova base.
Margherita Paolini, su Limes 3/07 "Mai dire Guerra" (l'articolo è intitolato "Per non perdere l'Afghanistan") svolge, a proposito di essa - base - le seguenti considerazioni:
"(La base sorge) a 45 km dalla frontiera iraniana, certamente in funzione più antiraniana che antitalibana, visto che in questa zona essi non dispongono di importanti retroterra. La base è posizionata in modo da controllare anche l’asse che collega Herat con l’importante centro gasifero di Mary in Turkmenistan. Su questo asse viaggia la ferrovia che garantisce i nostri rifornimenti, in parte assicurati anche via aria grazie ai corridoi aerei concessi dagli iraniani. Nel caso di una guerra «preventiva» Usa-Iran, le nostre truppe si troverebbero in una delle aree più esposte alle rappresaglie dei pasdaran lungo tutto il confine di 630 chilometri che la regione di Herat divide con l’Iran".
Il Ministro Frattini sostiene che per l'Iran passa il 40% della produzione degli oppiacei prodotti in Afghanistan, droga diretta al mercato europeo (fonte: Reuters - 27 Giugno 2009). Molti analisti, lo ricordiamo ancora, hanno il sospetto che l'Italia chiuda gli occhi su questi traffici...
Negli ultimi mesi il contingente italiano è cresciuto numericamente fino a contare 3.300 soldati, si è dotato di mezzi come 4 aerei Tornado e una squadra di elicotteri Mangusta, mentre l’impegno operativo è aumentato notevolmente con l’eliminazione dei caveat che ne limitavano l’impiego. I parà conducono da maggio anche azioni offensive al fianco delle truppe Kabul con l’obiettivo di strappare ai talebani il controllo di alcune aree del territorio. Cioè lo stesso compito assegnato a britannici e americani a Helmand e in altre province del sud e dell’est afgano dal comando alleato di Kabul che punta ad estendere al massimo il presidio del territorio in vista, come si è detto, delle elezioni presidenziali del 20 agosto.
Ma i nostri militari sono coinvolti negli scontri a fuoco essenzialmente per la seguente dinamica: l'offensiva nello Helmand delle truppe anglo-americane costringe i taleban a spostarsi nei "nostri" territori dello Herat: qui gli "alleati" si aspettano che noi spariamo loro addosso...
Gli iraniani vogliono invece che non diamo troppo fastidio agli insorti. Che fare, dunque? Possiamo ancora pretendere di stare in mezzo ad una guerra, tra vari fuochi, fingendo che siamo lì ad edificare ospedali e a distribuire caramelle ai bambini?
A Herat sono attualmente attive nel "settore di assistenza alle fasce vulnerabili" due Ong italiane: Intersos e Cesvi. Entrambe realizzano progetti, finanziati dalla DG Cooperazione allo Sviluppo, nella città di Herat e nei distretti limitrofi, promuovendo "corsi di formazione professionale, attività di auto sostentamento nel settore agro pastorale, assistenza e reinserimento sociale dei profughi afgani rientrati dall’Iran".
Questa presenza è presentata dalla DGCS come un "esempio di cooperazione civile-militare" (Fonte: DG Cooperazione Italiana allo Sviluppo).
Quella che chi lavora per i Corpi civili di Pace francamente dovrebbe invece evitare come la peste, almeno in questa fase in cui la politica militare italiana è coinvolgimento (subalterno) nella "guerra al terrore"...
E qui ribadiamo il solito discorso, contrapposto a qualsiasi tipo di interventismo militare: dobbiamo lasciare l'Afghanistan agli afghani! Quanto prima e quanto più completamente ci togliamo dai piedi meglio è.
Questo significa:
1- ritirare tutti i nostri "caritatevoli" soldati, anche quelli "europei" che, con le migliori intenzioni, volessero fare da usbergo ai signori della guerra;
2- colpire, invece, i signori della guerra: a) andando a scovare qui trafficoni (militaristi) e trafficanti (criminali) con cui essi - i lords of war - sono in combutta; b) acquistando a prezzo equo dai contadini afghani l'oppio che ci serve come medicinale; c) liberalizzando da noi le droghe "leggere" e legalizzando le droghe "pesanti".
Non ci siamo ancora stancati della "solidarietà" che vuole risolvere i problemi dei "sottosviluppati", nel presupposto che noi siamo i forti e i civili e gli altri sono deboli e minus habens?
Noi e i contadini afghani abbiamo un problema comune su cui possiamo impostare, alla pari, una lotta comune: stroncare insieme il traffico internazionale della droga; ed il proibizionismo che ne costituisce la base legale.
Dobbiamo conoscerci - le società civili - e dialogare per costruire, da pari a pari, una nuova internazionale dei diritti umani sulla base della centralità degli oppressi.
A questo potrebbe servire una Ambasciata di pace a Kabul.
Non a fare la "resistenza" per la ricostruzione al posto degli altri: le "resistenze", allo stesso modo delle democrazie, non si esportano. La soluzione, ce lo dice una esperienza pluri-secolare, risulterebbe peggiore dei problemi a cui si vorrebbe porre riparo...
Per l'intanto c'è da ribadire comunque l'impegno a battersi per il ritiro incondizionato di tutte le truppe della NATO, da questo e dagli altri fronti della "guerra al terrore".
E da proporre a tutto il movimento no-war l'obiezione alle spese militari (vai sul sito www.osmdpn.it) come forma di protesta e di resistenza al nostro coinvolgimento bellico.
Una forma che potrebbe e dovrebbe interessare anche i movimenti della resistenza territoriale, perchè la contestazione e la riduzione delle spese militari e belliche indebolisce lo Stato autoritario, con le sue "Grandi Opere" invasive ed oppressive; e libera risorse per le autentiche necessità sociali.
fonte il manifesto del 16/07/09
AFGHANISTAN, «EXIT STRATEGY» DEL SILENZIO
Alessandro Dal Lago
Mentre Obama inizia a parlare, anche se con grandissima cautela, di una qualche exit strategy dall'Afghanistan, in Italia tutte le massime autorità dello stato e del governo si affrettano a riaffermare la fedeltà alla missione Nato.
Nulla come questa discrepanza rivela l'assoluta marginalità del nostro paese nelle questioni strategiche e la subordinazione a prescindere, mentale oltre che politica, alla Nato e agli Stati Uniti.
Così è andata con l'Iraq e così continuerà ad andare. L'unica differenza è che, a ogni soldato ucciso, cade un altro velo di ipocrisia. Quella a cui l'Italia partecipa, con forze destinate ad aumentare, non è un'operazione di mantenimento della pace o di «nation building», con i nostri bravi ragazzi che distribuiscono viveri e costruiscono scuole, ma una guerra vera e propria condotta in condizioni proibitive in un paese da cui, negli ultimi trecento anni, nessun esercito straniero è uscito vincitore. Una guerra che, ovviamente, porterà altri lutti in un paese come il nostro, che combatte ma non lo vuole ammettere.
Da mesi osservatori e anche autorità militari dei paesi più coinvolti (per esempio, gli inglesi) dichiarano che la guerra si è impantanata e che in realtà americani e Nato controllano, a parte l'area di Kabul, e altre poche enclaves, solo le basi militari. Ma le ragioni dello stallo (o, meglio, di una strisciante sconfitta strategica) non sono solo militari - come la mancanza di obiettivi precisi, o l'illusione di venire a capo con i bombardamenti «mirati» e le forze speciali di una resistenza radicata evidentemente nel tessuto sociale pashtun.
Sono soprattutto politiche: il governo Karzai è notoriamente corrotto e, per arginare l'influenza dei talebani, viene a patti con le forze più conservatrici, ciò che lo rende sempre meno popolare. Inoltre, i massacri di prigionieri compiuti da alcuni signori della guerra (con la complicità americana) nel 2001 hanno radicato in vaste parti del paese un odio per gli occidentali che non si spiega solo con la propaganda dei talebani.
Obama, ovviamente, ne è consapevole, ma al tempo stesso è costretto a gestire l'eredità avvelenata di Bush: le conseguenze della guerra in Iraq (con il conflitto tra sunniti e sciiti), la crisi del regime iraniano (che impedisce in questa fase qualsiasi negoziato sulla questione nucleare) e il rebus pakistano compongono un puzzle strategico insolubile.
Di conseguenza, l'idea di uscire dall'Afghanistan delegando alcune funzioni civili e militari all'inetto governo Karzai suona più come un mettere le mani avanti che non come una vera prospettiva praticabile a breve termine.
Di tutto questo si discute anche aspramente, negli Usa e nei paesi Nato che contano. Ma non da noi, non si sa se per mera insipienza o per nascondere la testa sotto la sabbia. Non lo fa la maggioranza e non fa l'opposizione, che a suo tempo, quando era al governo, era altrettanto miope.
Da noi si preferisce, da sempre, la retorica dell'unità nazionale di fronte ai lutti. E questo significa semplicemente che altre famiglie dovranno aprire la porta ad alti ufficiali e cappellani che recano notizie funeste.
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