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Marines anti-pirati sui mercantili italiani

La Marina militare è pronta a dislocare i propri uomini a bordo dei mercantili italiani in transito nelle acque della Somalia. Si sviluppa un'inedita e pericolosa partnership tra forze armate, industrie militari e armatori in funzione anti-pirateria.

4 febbraio 2011

Nuclei composti da 5 fucilieri del Reggimento San Marco da imbarcare nelle unità mercantili italiane e proteggerle dagli attacchi dei pirati a largo delle coste della Somalia. È quanto prevede il progetto elaborato in gran segreto dalla Marina militare in collaborazione con la Confederazione Italiana Armatori (Confitarma), e presentato 5 mesi fa al Presidente del Consiglio e ai ministri degli Esteri e della Difesa per la sua approvazione. Le regole d’ingaggio sarebbero in via di definizione da parte di un “tavolo tecnico” a cui partecipano gli alti comandi della Marina e i rappresentanti delle società di navigazione, ricalcando quanto sperimentato nelle acque del Golfo di Aden da Francia e Belgio, unici paesi europei ad aver autorizzato sino ad oggi l’invio di militari anti-pirati a bordo delle navi mercantili.

L’inedita partnership armatori-forze armate è stata annunciata da Stefano Messina, amministratore delegato del gruppo genovese “Ignazio Messina e C.” e vicepresidente di Confitarma. “Abbiamo spinto noi perché, a fronte di un primo atteggiamento più prudente che prevedeva solo modalità passive per difendersi dagli attacchi dei pirati (l’uso di filo spinato, ultrasuoni, idranti, ecc.), si arrivasse ad una presa di posizione più decisa”, ha dichiarato Messina. “Abbiamo così condiviso questa azione con la Marina militare per mettere in atto azioni di difesa, con presenza di militari formati, pagati dagli armatori, a bordo delle navi mercantili. Il rafforzamento della sicurezza comporterà costi importanti, ma saranno sicuramente inferiori rispetto a quelli per i provvedimenti sino ad ora presi, a partire dall’allungamento dei viaggi di 4-500 miglia e che solo per la nostra società comportano una spesa di quasi 10 milioni di euro all’anno”.

Le nuove modalità d’impiego di uomini, mezzi e tecnologie “per sconfiggere i pirati del mare” sono state al centro di un convegno organizzato nei giorni scorsi a Roma dall’Istituto Italiano di Navigazione e da Confitarma, presenti gli alti comandi di Marina militare, Guardia costiera, Guardia di finanza ed Arma dei carabinieri più alcuni manager di Finmeccanica, la holding a capo del complesso militare-industriale italiano. E se l’ammiraglio Fabio Caffio, ispettore dello Stato Maggiore della Marina, ha ribadito la disponibilità ad impiegare i marines del San Marco su navi e petroliere, armatori e militari si sono detti pronti a studiare ulteriori iniziative di contrasto alla pirateria, a partire dell’utilizzo dei più recenti sistemi tecnologici prodotti da Selex Sistemi Integrati, società presente al meeting di Roma. “Da sempre Selex Sistemi Integrati si occupa di contrastare le minacce in mare e la pirateria è certamente una di queste”, ha spiegato l’ingegnere Marina Grossi, amministratrice delegata della società e moglie di Pier Francesco Guarguaglini, presidente di Finmeccanica. “Sinora abbiamo realizzato con le forze che operano per la sicurezza e la difesa a mare, come la Marina militare, la Guardia costiera, la Guardia di finanza e molti altri enti, sistemi di missione per tutte le classi di imbarcazioni”.

Nel giugno 2009, Selex ha installato in Yemen un sistema integrato di monitoraggio del traffico navale che copre 450 km di costa, dal Mar Rosso al Mare Arabico. Il sistema, denominato Yemeni national vessel traffic monitoring, si basa su centri di comando e controllo e su sensori terrestri per la sicurezza del traffico marittimo che si integrano con i sensori istallati sulle navi in transito. Un modello “anti-pirateria” e “anti-migranti” che l’azienda italiana spera di esportare ai paesi del Corno d’Africa e della penisola arabica, congiuntamente al “sistema di difesa portuale” denominato Archimede la cui sperimentazione è iniziata nel settembre 2009 presso l’Arsenale navale di La Spezia. “Si tratta di un sistema che si ispira al metodo studiato da Archimede per difendere la città di Siracusa dagli attacchi via mare ed è concepito per una protezione dalle minacce asimmetriche”, hanno dichiarato gli ingegneri di Selex nel corso di una recente conferenza sulle “metodologie non letali per l’individuazione e il contrasto di terroristi, pirati, contrabbandieri e trafficanti di esseri umani”, organizzata a Carrara dal NURC, il Centro di Ricerche Sottomarine della NATO. “La maggiore innovazione del programma Archimede è quella di poter operare a livello multi-ambientale, in acqua, sulla superficie e in aria, anche con i veicoli senza pilota che rappresentano la nuova frontiera del settore”.

Sono più di una trentina le unità militari dell’Unione europea (operazione Atalanta), della NATO, dell’US Navy e della task force multinazionale Joint Maritime Forces and Combined Task Force 151 che pattugliano le acque del Corno d’Africa. In funzione anti-pirati viene pure utilizzato saltuariamente il Gruppo Navale Permanente SNMG 1 (Standing Nato Maritime Group 1), la componente navale della Forza di Reazione Rapida della NATO, da un mese a questa parte sotto comando italiano. Nonostante l’escalation della presenza militare internazionale gli attacchi dei “pirati” sono cresciuti in numero e intensità. Secondo l’International Maritime Bureau di Londra, lo scorso anno si sono verificati 53 sequestri di mercantili (1.181 membri di equipaggio), buona parte dei quali in acque somale. E mentre in Italia ammiragli, industrie belliche e armatori stringono un’alleanza per intensificare gli interventi armati contro i pirati, a Washington il Government Accountability Office (GAO) esprime forti perplessità sulle azioni di contrasto sino ad oggi realizzate dalle unità militari USA. “Il governo degli Stati Uniti non sta controllando in modo sistematico i costi o l’efficacia delle sue operazioni anti-pirateria in Somalia e intanto gli attacchi aumentano e si estendono all’Oceano Indiano”, scrive il GAO in un rapporto dell’ottobre 2010. “Gli analisti della difesa stimano che per coprire l’intera area interessata dalla pirateria sarebbero necessarie più di 1.000 navi da guerra equipaggiate con elicotteri, numero che va oltre i mezzi che le marine mondiali sono in grado di fornire. Per questo è necessario rivedere le strategie e il piano di azione elaborati nel 2008 per adeguarli alle odierne condizioni e priorità”.

Le ragioni del fallimento internazionale nel contrasto della pirateria sono state analizzate pure da un documento presentato a fine gennaio 2011 al Consiglio di Sicurezza da Jack Lang, consulente-delegato del Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. “Lo status odierno non è più sostenibile e sono necessarie azioni urgenti che includano nuovi provvedimenti legislativi per punire i pirati, la costruzione di prigioni, lo scambio d’informazioni tra i paesi sulle caratteristiche del fenomeno, il monitoraggio finanziario e nuove sanzioni delle Nazioni Unite”, scrive Lang. “Il 90% dei pirati catturati vengono poi rilasciati per l’incapacità di processarli o incarcerarli. Per questo si raccomanda l’implementazione di tre nuove corti specializzate, due nelle regioni semiautonome di Puntland e Somaliland e la terza con giurisdizione sulla Somalia in Tanzania. È altresì importante che si continui a finanziare internazionalmente gli interventi anti-pirateria, così come la realizzazione di un tribunale speciale di massima sicurezza a Mombasa, Kenya, che possa essere utilizzato specificatamente per casi di pirateria e gravi comportamenti criminali”. Per Jack Lang, il danno economico generato annualmente dalla pirateria nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano va valutato in oltre 7 miliardi di dollari, in termini di minori ingressi per le società di navigazione, rincari delle polizze assicurative e spese per il dislocamento delle navi da guerra. Restano fuori dai conti i milionari contratti stipulati dagli armatori con le aziende di sicurezza privata e quelli per l’acquisto di cannoni, armi “non letali” e sistemi d’allarme vari.

 

Nuclei composti da 5 fucilieri del Reggimento San Marco da imbarcare nelle unità mercantili italiane e proteggerle dagli attacchi dei pirati a largo delle coste della Somalia. È quanto prevede il progetto elaborato in gran segreto dalla Marina militare in collaborazione con la Confederazione Italiana Armatori (Confitarma), e presentato 5 mesi fa al Presidente del Consiglio e ai ministri degli Esteri e della Difesa per la sua approvazione. Le regole d’ingaggio sarebbero in via di definizione da parte di un “tavolo tecnico” a cui partecipano gli alti comandi della Marina e i rappresentanti delle società di navigazione, ricalcando quanto sperimentato nelle acque del Golfo di Aden da Francia e Belgio, unici paesi europei ad aver autorizzato sino ad oggi l’invio di militari anti-pirati a bordo delle navi mercantili.

L’inedita partnership armatori-forze armate è stata annunciata da Stefano Messina, amministratore delegato del gruppo genovese “Ignazio Messina e C.” e vicepresidente di Confitarma. “Abbiamo spinto noi perché, a fronte di un primo atteggiamento più prudente che prevedeva solo modalità passive per difendersi dagli attacchi dei pirati (l’uso di filo spinato, ultrasuoni, idranti, ecc.), si arrivasse ad una presa di posizione più decisa”, ha dichiarato Messina. “Abbiamo così condiviso questa azione con la Marina militare per mettere in atto azioni di difesa, con presenza di militari formati, pagati dagli armatori, a bordo delle navi mercantili. Il rafforzamento della sicurezza comporterà costi importanti, ma saranno sicuramente inferiori rispetto a quelli per i provvedimenti sino ad ora presi, a partire dall’allungamento dei viaggi di 4-500 miglia e che solo per la nostra società comportano una spesa di quasi 10 milioni di euro all’anno”.

Le nuove modalità d’impiego di uomini, mezzi e tecnologie “per sconfiggere i pirati del mare” sono state al centro di un convegno organizzato nei giorni scorsi a Roma dall’Istituto Italiano di Navigazione e da Confitarma, presenti gli alti comandi di Marina militare, Guardia costiera, Guardia di finanza ed Arma dei carabinieri più alcuni manager di Finmeccanica, la holding a capo del complesso militare-industriale italiano. E se l’ammiraglio Fabio Caffio, ispettore dello Stato Maggiore della Marina, ha ribadito la disponibilità ad impiegare i marines del San Marco su navi e petroliere, armatori e militari si sono detti pronti a studiare ulteriori iniziative di contrasto alla pirateria, a partire dell’utilizzo dei più recenti sistemi tecnologici prodotti da Selex Sistemi Integrati, società presente al meeting di Roma. “Da sempre Selex Sistemi Integrati si occupa di contrastare le minacce in mare e la pirateria è certamente una di queste”, ha spiegato l’ingegnere Marina Grossi, amministratrice delegata della società e moglie di Pier Francesco Guarguaglini, presidente di Finmeccanica. “Sinora abbiamo realizzato con le forze che operano per la sicurezza e la difesa a mare, come la Marina militare, la Guardia costiera, la Guardia di finanza e molti altri enti, sistemi di missione per tutte le classi di imbarcazioni”.

Nel giugno 2009, Selex ha installato in Yemen un sistema integrato di monitoraggio del traffico navale che copre 450 km di costa, dal Mar Rosso al Mare Arabico. Il sistema, denominato Yemeni national vessel traffic monitoring, si basa su centri di comando e controllo e su sensori terrestri per la sicurezza del traffico marittimo che si integrano con i sensori istallati sulle navi in transito. Un modello “anti-pirateria” e “anti-migranti” che l’azienda italiana spera di esportare ai paesi del Corno d’Africa e della penisola arabica, congiuntamente al “sistema di difesa portuale” denominato Archimede la cui sperimentazione è iniziata nel settembre 2009 presso l’Arsenale navale di La Spezia. “Si tratta di un sistema che si ispira al metodo studiato da Archimede per difendere la città di Siracusa dagli attacchi via mare ed è concepito per una protezione dalle minacce asimmetriche”, hanno dichiarato gli ingegneri di Selex nel corso di una recente conferenza sulle “metodologie non letali per l’individuazione e il contrasto di terroristi, pirati, contrabbandieri e trafficanti di esseri umani”, organizzata a Carrara dal NURC, il Centro di Ricerche Sottomarine della NATO. “La maggiore innovazione del programma Archimede è quella di poter operare a livello multi-ambientale, in acqua, sulla superficie e in aria, anche con i veicoli senza pilota che rappresentano la nuova frontiera del settore”.

Sono più di una trentina le unità militari dell’Unione europea (operazione Atalanta), della NATO, dell’US Navy e della task force multinazionale Joint Maritime Forces and Combined Task Force 151 che pattugliano le acque del Corno d’Africa. In funzione anti-pirati viene pure utilizzato saltuariamente il Gruppo Navale Permanente SNMG 1 (Standing Nato Maritime Group 1), la componente navale della Forza di Reazione Rapida della NATO, da un mese a questa parte sotto comando italiano. Nonostante l’escalation della presenza militare internazionale gli attacchi dei “pirati” sono cresciuti in numero e intensità. Secondo l’International Maritime Bureau di Londra, lo scorso anno si sono verificati 53 sequestri di mercantili (1.181 membri di equipaggio), buona parte dei quali in acque somale. E mentre in Italia ammiragli, industrie belliche e armatori stringono un’alleanza per intensificare gli interventi armati contro i pirati, a Washington il Government Accountability Office (GAO) esprime forti perplessità sulle azioni di contrasto sino ad oggi realizzate dalle unità militari USA. “Il governo degli Stati Uniti non sta controllando in modo sistematico i costi o l’efficacia delle sue operazioni anti-pirateria in Somalia e intanto gli attacchi aumentano e si estendono all’Oceano Indiano”, scrive il GAO in un rapporto dell’ottobre 2010. “Gli analisti della difesa stimano che per coprire l’intera area interessata dalla pirateria sarebbero necessarie più di 1.000 navi da guerra equipaggiate con elicotteri, numero che va oltre i mezzi che le marine mondiali sono in grado di fornire. Per questo è necessario rivedere le strategie e il piano di azione elaborati nel 2008 per adeguarli alle odierne condizioni e priorità”.

Le ragioni del fallimento internazionale nel contrasto della pirateria sono state analizzate pure da un documento presentato a fine gennaio 2011 al Consiglio di Sicurezza da Jack Lang, consulente-delegato del Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. “Lo status odierno non è più sostenibile e sono necessarie azioni urgenti che includano nuovi provvedimenti legislativi per punire i pirati, la costruzione di prigioni, lo scambio d’informazioni tra i paesi sulle caratteristiche del fenomeno, il monitoraggio finanziario e nuove sanzioni delle Nazioni Unite”, scrive Lang. “Il 90% dei pirati catturati vengono poi rilasciati per l’incapacità di processarli o incarcerarli. Per questo si raccomanda l’implementazione di tre nuove corti specializzate, due nelle regioni semiautonome di Puntland e Somaliland e la terza con giurisdizione sulla Somalia in Tanzania. È altresì importante che si continui a finanziare internazionalmente gli interventi anti-pirateria, così come la realizzazione di un tribunale speciale di massima sicurezza a Mombasa, Kenya, che possa essere utilizzato specificatamente per casi di pirateria e gravi comportamenti criminali”. Per Jack Lang, il danno economico generato annualmente dalla pirateria nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano va valutato in oltre 7 miliardi di dollari, in termini di minori ingressi per le società di navigazione, rincari delle polizze assicurative e spese per il dislocamento delle navi da guerra. Restano fuori dai conti i milionari contratti stipulati dagli armatori con le aziende di sicurezza privata e quelli per l’acquisto di cannoni, armi “non letali” e sistemi d’allarme vari.

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