Sangue e paura nelle strade del Cairo mentre gli uomini di Mubarak reprimono le proteste
Ieri (2 febbraio 2011, N.d.T.) la controrivoluzione del “Presidente” Hosni Mubarak si è abbattuta sui suoi oppositori in un bombardamento di pietre, bastoni, spranghe di ferro e mazze, una battaglia durata tutta la giornata nel cuore della capitale che lui sostiene di governare tra decine di migliaia di giovani, tutti – ed è questa la più pericolosa delle armi – che sventolavano una di fronte all’altro la bandiera dell’Egitto. Si è trattato di un’azione feroce, spietata, sanguinosa e ben pianificata, una vendetta finale di tutti i critici di Mubarak e una vergognosa accusa agli Obama e ai Clinton che hanno mancato di denunciare questo fedele alleato dell’America e di Israele.
Alcuni trascinavano uomini della sicurezza di Mubarak attraversò la piazza, colpendoli fino a macchiarsi gli abiti con il sangue che sprizzava dalle loro teste. La Terza Armata Egiziana, celebrata in leggende e canzoni per aver attraversato il Canale di Suez nel 1973, non riusciva, o non voleva, nemmeno ad attraversare la piazza Tahrir per aiutare i feriti.
Le migliaia di egiziani che gridavano all’abuso – e l’Egitto non era mai arrivato così vicino a una guerra civile – e sciamavano gli uni contro gli altri come antichi combattenti romani semplicemente sopraffecero i reparti di paracadutisti “a guardia” della piazza, arrampicandosi sui carri armati e sui mezzi blindati e poi utilizzandoli come copertura.
Il comandante di un carro armato Abrams, mi trovavo a soli cinque o sei metri di distanza, si limitò a schivare le pietre che rimbalzavano sul suo mezzo, saltò nella torretta e chiuse il portello. I manifestanti contro Mubarak quindi si arrampicarono in cima per lanciare altre pietre contro i loro giovani e folli avversari.
Quando riuscii a raggiungere la linea “frontale” – le virgolette sono essenziali, in quanto le linee di uomini si spostavano avanti e indietro di mezzo miglio – entrambe le fazioni stavano urlando scagliandosi una contro l’altra con i volti rigati di sangue. A un certo punto, prima che l’urto dell’attacco si esaurisse, i sostenitori di Mubarak avevano quasi attraversato tutta la piazza di fronte al mostruoso edificio Mugamma – ricordo dello sforzo di Nasser – prima di essere ricacciati indietro.
E a pensarci bene, ora che egiziani combattono contro altri egiziani, come dovremmo chiamare queste persone pericolosamente furiose? I Mubarakiti? I “contestatori” o, in modo più sinistro, la “resistenza”? Perché è così che adesso si chiamano gli uomini e le donne che stanno lottando per far cadere Mubarak.
“Questa è opera di Mubarak”, mi ha detto un lanciatore di pietre ferito. “ È riuscito a mettere gli egiziani contro gli egiziani sono per altri nove mesi di potere. È pazzo. Anche voi in Occidente siete pazzi?” Non riesco a ricordare come ho risposto a questa domanda. Ma come potrei dimenticarmi che, solo poche ore prima, stavo guardando “l’esperto” di Medio Oriente Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts, che alla domanda se Mubarak fosse un dittatore, rispondeva “No, è una figura di carattere monarchico”?
Il volto di questo monarca veniva portato sulle barricate su poster giganti, come una sorta di provocazione stampata. Appena distribuiti dai funzionari del Partito Nazionale Democratico – la loro produzione deve aver richiesto un po’ di tempo dopo che il quartiere generale del partito era stato ridotto a una carcassa in fiamme dopo le battaglie di venerdì – molti erano tenuti in aria da uomini armati di bastoni e manganelli da poliziotto. Su questo non ci sono dubbi, perché ero arrivato in macchina al Cairo dal deserto mentre si allineavano fuori dal Ministero degli Esteri e dall’edificio della radio di Stato sulla riva orientale del Nilo. Gli altoparlanti diffondevano canzoni e appelli inneggianti alla vita eterna di Mubarak (davvero una presidenza molto lunga) e molti erano seduti su motociclette nuove di zecca, come se si fossero ispirati ai thug di Mahmoud Ahmadinejad dopo le elezioni iraniane del 2009. A pensarci bene, Mubarak e Ahmadinejad hanno effettivamente lo stesso rispetto per le elezioni.
Solo quando ebbi superato l’edificio della radio vidi le migliaia di altri giovani uomini che si riversavano provenienti dai sobborghi del Cairo. C’erano anche donne, la maggior parte delle quali indossava il tradizionale abito nero con scialle bianco e nero, tra di loro alcuni bambini, e tutti camminavano lungo il cavalcavia alle spalle del Museo Egizio. Mi dissero che avevano lo stesso diritto dei manifestanti di andare in piazza Tahrir – il che era vero, in effetti – e che intendevano esprimere il loro amore per il Presidente proprio nel luogo in cui era stato così dissacrato.
E avevano ragione, suppongo. Venerdì i democratici – o la “resistenza”, a seconda del vostro punto di vista – avevano cacciato i thug delle forze di sicurezza proprio da questa piazza. Il problema è che tra gli uomini di Mubarak c’erano alcuni degli stessi thug che avevo visto allora, quando collaboravano con le forze di sicurezza armate per manganellare e assaltare i dimostranti. Uno di essi, un giovane con la maglietta gialla con i capelli arruffati e gli occhi di un rosso acceso, non so cosa stesse facendo, portava la stessa sinistra spranga di acciaio che stava utilizzando venerdì. Ancora una volta, i difensori di Mubarak erano tornati. Cantavano persino lo stesso vecchio ritornello, ogni volta rielaborato in modo da includere il nome del dittatore del momento: “Con il nostro sangue, con la nostra anima, ci dedichiamo a te”.
Nella lontana Giza, il PND aveva radunato gli uomini che controllavano le votazioni alle elezioni e li aveva inviati a gridare slogan di sostegno mentre marciavano lungo un canale di scarico maleodorante. Non lontano, persino un cammelliere era stato costretto a dire che “se non conosci Mubarak, non conosci Allah”, il che era, a dir poco, un po’ eccessivo.
Al Cairo, camminai accanto alle file di Mubarak e raggiunsi la linea frontale mentre davano inizio a un’altra carica in piazza Tahrir. Il cielo era pieno di pietre, sto parlando di pietre di 15 cm di diametro, che colpivano il terreno come proiettili di mortaio. Da questo lato della “linea”, ovviamente, queste provenivano dagli oppositori di Mubarak. Si rompevano, si spezzavano e battevano contro i muri attorno a noi. A quel punto, gli uomini del PND si voltarono e fuggirono in preda al panico mentre il oppositori del Presidente si gettavano avanti come un’onda. Mi misi con la schiena contro la vetrina di un’agenzia di viaggi chiusa – ricordo un poster che pubblicizzava un weekend romantico a Luxor e nella “favolosa Valle dei Re”.
Ma le pietre arrivavano innumerevoli, a centinaia alla volta, e poi un nuovo gruppo di giovani era accanto a me, i dimostranti egiziani provenienti dalla piazza. Solo che nella loro furia non stavano più gridando "Abbasso Mubarak" e "Mubarak malvagio", ma Allahu Akbar – Dio è grande – e questo grido l’avrei sentito più e più volte con l’avanzare del giorno. Un lato stava inneggiando a Mubarak, l’altro a Dio. Non era così 24 ore prima.
Mi diressi di corsa verso un punto sicuro in cui le pietre non sibilavano e non si frantumavano più e improvvisamente mi ritrovai tra il oppositori di Mubarak.
Ovviamente, sarebbe un’esagerazione dire che le pietre nascondevano il cielo, ma a volte c’erano centinaia di pietre in volo. Distrussero completamente un camion dell’esercito, fracassandone i lati, rompendo i finestrini. Le pietre uscivano dalle vie laterali di Champollion Street e su Talaat Harb. Gli uomini erano sudati, con la bandana rossa intorno al capo e ruggirono il loro odio. Molti portavano stoffe bianche avvolte attorno alle ferite. Alcuni venivano trasportati via, versando sangue sulla strada.
E un numero sempre maggiore indossava l’abito islamico, pantaloni corti, mantelli grigi, barbe lunghe, copricapi bianchi. Gridavano Allahu Akbar a voce altissima e urlavano rabbiosamente il loro amore per Dio, cosa che in quel momento sembrava essere decisamente fuori posto. Sì, era opera di Mubarak. Aveva indotto i salafiti a uscire e mettersi contro di lui, accanto ai suoi nemici politici. Ogni tanto, dei giovani venivano catturati, presi a pugni sul volto mentre urlavano temendo per la loro vita, perquisiti per trovare fra i loro abiti i documenti che dimostrassero che lavoravano per il ministero degli interni di Mubarak.
Molti dei manifestanti – giovani laici, che si facevano strada attraverso gli aggressori – cercavano di difendere i prigionieri. Altri – e tra di loro notai una quantità impressionante di “islamisti”, con tanto di barbe di ordinanza – battevano i pugni sulla testa di questi sventurati, utilizzando i grandi anelli che portavano alle dita per aprire dei tagli nella pelle e far scorrere il sangue sui loro volti. Un giovane, con la maglietta rossa lacerata, il volto gonfio di terrore, venne salvato da due uomini massicci, uno dei quali si caricò sulle spalle il prigioniero mezzo nudo e si fece largo attraverso la folla.
Così che venne salvata la vita di Mohamed Abdul Azim Mabrouk Eid, agente di polizia matricola 2101074 del governatorato di Giza – aveva un pass di sicurezza blu con tre strane piramidi impresse sulla copertina laminata. Così un altro uomo veniva sottratto alla folla, strillando e stringendosi lo stomaco. E dietro di lui uno squadrone di donne era inginocchiato a rompere le pietre.
In tutto questo ci furono anche momenti non privi di una certa comicità. A metà del pomeriggio, quattro cavalli vennero lanciati nella piazza dai sostenitori di Mubarak, insieme a un cammello – sì, un vero cammello che doveva essere stato trasportato in camion dalle piramidi – con i loro cavalieri evidentemente drogati che colpivano dalla loro groppa. Tre ore più tardi trovai i cavalli che pascolavano tranquillamente dietro un albero. Vicino alla statua di Talaat Harb, un ragazzo vendeva agwa – un tipico dolce egiziano a base di datteri e pane – a 4 pence ciascuno, mentre dall’altro lato della strada, due figure, una ragazza e un ragazzo stavano in piedi reggendo due vassoi in cartone identici, quello della ragazza pieno di pacchetti di sigarette, quello del ragazzo pieno di pietre.
E ci furono scene che devono aver significato dolore e angoscia per i loro protagonisti. C’era un uomo alto e muscoloso, ferito al volto da una pietra, le cui gambe cedettero vicino a una centralina telefonica, il cui metallo gli provocò ulteriori tagli al viso. E ci fu soldato su un mezzo blindato che si lasciò superare dalle pietre provenienti da entrambi i lati, finché non saltò sulla strada ad abbracciare i nemici di Mubarak, con le lacrime che gli rigavano il volto.
E dov’era l’Occidente in mezzo tutto questo odio e spargimento di sangue? A fare la cronaca di questa vergogna ogni giorno, si soffre d’insonnia. Più o meno attorno alle tre del mattino di ieri, avevo visto “Lord Blair di Isfahan” mentre si sforzava di spiegare alla CNN il bisogno di “associarsi al processo di cambiamento” in Medio Oriente. Dovevamo evitare “l’anarchia” degli “elementi più estremi”. Inoltre – questa è la mia preferita – Lord Blair parlava di “un governo che non è eletto secondo il sistema di democrazia che noi abbracceremmo”. Ebbene, sappiamo tutti a quale “democrazia” si stava riferendo.
Correva voce che quest’uomo – la “figura di carattere monarchica” di Mitt Romney – potesse lasciare di nascosto l’Egitto venerdì. Non ne sono così sicuro. Non so chi abbia davvero vinto la Battaglia di Piazza Tahrir ieri, anche se il quesito non resterà a lungo senza risposta. All’imbrunire, le pietre stavano ancora piovendo sulle strade, e sulla gente. Dopo un po’, iniziai a scansarmi anche quando vedevo passare un uccello.
N.d.T.: Titolo originale: "Robert Fisk: Blood and fear in Cairo's streets as Mubarak's men crack down on protests"
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