Conflitti

Tra rivoluzioni reali e immaginarie

Lo studioso e giornalista politico Majed Kayyali dà un resoconto di alcuni aspetti della rivoluzione egiziana, con le sue caratteristiche di movimento spontaneo, sostanzialmente nonviolento, slegato dalle categorie politiche tradizionali
12 febbraio 2011
Majed Kayyali (al-Hayat)
Tradotto da Susanna Valle per PeaceLink

Quando è troppo, è troppo: 30 anni di corruzione, 10 differenti governi, un presidente, 80 milioni di sofferenti.

La rivoluzione del popolo egiziano è stata una completa sorpresa, per il governo ed i partiti di quel Paese, ma anche per gli altri governi arabi e non arabi coinvolti, tra i quali Israele. Tuttavia questa rivoluzione è stata una sorpresa anche per le élite attive in politica, in Egitto e nel mondo arabo, colte di sorpresa in maniera del tutto inaspettata.

In ogni caso, con ogni probabilità la rivoluzione ha sorpreso anche i giovani che l’hanno innescata, e che non sapevano che il grido da loro lanciato, in favore della libertà e della dignità, avrebbe ribaltato lo status quo nel Paese, e dato una scossa alla situazione stagnante nella quale si trova l’Egitto, come forse anche gli altri Paesi arabi.

Ma la sorpresa totale in questa rivoluzione è rappresentata dal fatto che essa non si è svolta come al solito, come tipicamente avvengono le rivoluzioni nel mondo, dalla rivoluzione francese a quella bolscevica, ma essa ha tracciato un percorso con delle varianti ad esso peculiari. Sembra che tale diversità abbia suscitato svariati interrogativi e sia stata messa in discussione tra i nostri osservatori ed ‘analisti strategici’, tra quelli che sono soliti proporre dei modelli e delle categorie e tra quelli che, nell’intento di semplificare, applicano categorie ideologiche e rivoluzionarie agli orizzonti del mondo arabo.

Ad esempio, tra questi alcuni si sono occupati di riferire a questa rivoluzione delle colorazioni politiche, che non le si addicono affatto (senza voler affermare che ne siano distanti), ritenendo che essa si sia verificata per ricondurre all’ordine l’Egitto, al suo ruolo di guida nella lotta contro Israele; c’è poi chi ha visto in questa rivoluzione un ritorno dell’Egitto alla propria identità araba, anche se tale identità è andata sfumando; la realtà dispotica ed il regime di corruzione vigenti da generazioni nella maggior parte di Paesi arabi non possono infatti spiegare la rivoluzione, pur essendo stati sufficienti ad innescarla!

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C’è poi chi è arrivato fino al punto di fissare delle tabelle di marcia per i manifestanti di piazza Tahrir, proiettando su di loro con entusiasmo i propri desideri, suggerendo loro di muoversi rapidamente, ad esempio abbandonando la piazza per dirigersi verso il palazzo presidenziale; non hanno infatti meditato sulle pericolose conseguenze di azioni simili, come il rischio di trovarsi inaspettatamente a fronteggiare l’esercito, o quantomeno la guardia repubblicana, in un momento in cui la rivoluzione aveva invece la necessità tangibile di un allargamento, di orizzonti e gerarchico, per conquistare nuovi settori della società egiziana. Costoro avrebbero dovuto piuttosto sforzarsi di analizzare la natura della rivoluzione e delle forze che la guidano, dei suoi strumenti d’azione, delle sue modalità di allargamento verso l’opinione pubblica, a spese della classe dirigente, o, in altre parole, costoro avrebbero dovuto imparare dal popolo egiziano, invece che tentare di fornire loro degli insegnamenti o delle teorie.

Chi ha seguito lo svolgersi della sollevazione/rivoluzione, condotta dal popolo egiziano, ha potuto notare che questa gloriosa rivoluzione, iniziata da alcuni gruppi di giovani, si è allargata fino ad includere varie fasce della popolazione, al di là della condizione sociale, delle divergenze politiche ed ideologiche, dell’età. E’ anche possibile notare che questa rivoluzione è nata e si è sviluppata in maniera spontanea e molto lineare, pur senza essere organizzata, e non risulta che dietro di essa vi sia un quadro organizzativo (di tipo partitico o associazionista) e ed essa non ha nemmeno una guida determinata, dal momento che non ha né un leader, né un capo politico né un pensatore che la stimoli. Fin dall’inizio si è inoltre espressa senza esitazioni sul suo carattere del tutto pacifico, di conseguenza non è stata intrapresa deliberatamente alcuna azione violenta né vi è stata reazione a tutti gli atti violenti da parte del potere (ad eccezione dei tentativi di autodifesa durante gli scontri con le milizie di picchiatori assoldate dal governo). E’ anche evidente che questa rivoluzione ha lanciato in modo univoco il proprio obiettivo, rappresentato in tutta semplicità dal cambiamento di regime (non dall’abbattimento dello Stato), espressione che implica la liberazione, in una volta sola, dalla realtà di dispotismo, corruzione, repressione dei diritti e limitazione delle libertà. Oltre a tutto ciò questa rivoluzione ha affiancato e superato gli slogan e le ideologie precostituite, e questo è il segreto del suo successo e della sua trasformazione in una rivoluzione di tutto il popolo.

Come abbiamo visto, la rivoluzione del popolo egiziano, grazie al suo svolgimento relativamente tranquillo ed equilibrato, continua ad essere una sorta di scuola politica, in grado di insegnare in pochi giorni ad ampi settori del popolo egiziano (e con esso dei popoli arabi) quei concetti politici che normalmente richiedono generazioni per essere appresi; questa rivoluzione (e prima di essa la sollevazione del popolo tunisino) ha riportato la cittadinanza sulla scena politica dopo una lunga assenza, insegnandole come divenire un popolo. Essa ad esempio, partendo da un semplice movimento spontaneo, ha immaginato di porre un limite al regime, al dispotismo, all’emarginazione che incombono sul popolo egiziano, ed eccola trasformarsi in un movimento politico che mira a presentare delle risposte chiare alle questioni della legittimità, della Costituzione, delle elezioni.

Abbiamo anche visto che questa rivoluzione ha potuto costituire i suoi strumenti e le sue finalità a poco a poco, e, con la sua lungimiranza, ha potuto gradualmente minare la legittimità del potere, ad imporre le sue richieste di cambiamento, sia presso il popolo che presso i membri del potere. Si tratta di una questione davvero importante, l’essenza della rivoluzione egiziana non è destinata a scomparire o a deviare verso la banalità dei modi di dire come ‘la legittimità rivoluzionaria’: l’esperienza insegna che tale legittimità finisce poi per compromettere sia la legittimità dello Stato che quella della rivoluzione stessa.

Così continuiamo a vedere ed a sentire i giovani di piazza Tahrir mettere alla prova la politica, forzandone le decisioni, prendendosi gioco di essa. Uno di quei giovani ha espresso così questa posizione paradossale: “Noi non abbiamo niente a che vedere con la politica, noi vogliamo soltanto un cambiamento di regime… Basta! Basta con l’oppressione e l’ingiustizia! Dopo penseremo alla politica”.

Può essere corretto concludere che è stata questa spontaneità che ha protetto la rivoluzione del popolo egiziano, ed in qual modo? Fin dall’inizio essa non si è spinta all’azione violenta, ma non ha nemmeno usato la lingua della violenza, come nelle espressioni “Non ci muoveremo finché non se ne andrà”, o quella del giovane che solleva un cartello con su scritto “Dai vattene, che mi fa male il braccio”, o quello che si era scritto sulla pancia “Voglio ciò che mi spetta”. Prendete ad esempio il giovane Wa’el Ghanim, sicuramente uno dei simboli della rivoluzione, che ha detto alle televisioni satellitari, dopo esser stato rilasciato: “Ragazzi, io non sono un eroe né niente, io sono un uomo normale, voglio solo che il regime se ne vada”.

Forse questa via pacifica, tranquilla ed umile nelle sue stesse definizioni della rivoluzione è quella che ha confuso il regime, neutralizzato l’esercito ed incoraggiato ampi strati della popolazione egiziana a schierarsi a fianco dei giovani.

Di conseguenza, la rivoluzione egiziana è popolare nel vero senso della parola, in virtù delle forze che la guidano, delle sue modalità d’azione e dei suoi slogan, a prescindere dai suoi strumenti e dai suoi limiti: le rivoluzioni infatti possono fallire o cessare, come possono anche vincere, realizzare i propri obiettivi in tutto o in parte, in un colpo solo o in fasi diverse. Ciò che avviene in Egitto è davvero una rivoluzione, con tutto il rispetto per le parole di Marx, Engels e Lenin sulle rivoluzioni proletarie, sulla “violenza rivoluzionaria”, sulla “missione storica” e sul fatto che le rivoluzioni abbiano bisogno di un partito o di un’avanguardia rivoluzionaria. L’Egitto sta tracciando la sua strada verso il futuro e verso uno Stato fatto di cittadini: il resto verrà di conseguenza.

Tradotto da Susanna Valle per PeaceLink. Il testo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte (PeaceLink) e l'autore della traduzione.
N.d.T.: Titolo originale: "بين الثورات الواقعية والثورات المتخيّلة"

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