Coscienza e soldati russi
Luglio 2005. Sono a Mosca, in un vagone della metropolitana. Un ragazzo in sedia a rotelle mendica: “Aiutatemi, per l'amor di Dio”. Avrà 25 anni al massimo, una sola gamba e un solo braccio. Occhi azzurri, cranio rasato, cicatrici sparse un po' dappertutto. Bava alla bocca. Quel che resta del corpo fa intuire una certa prestanza fisica. Un tempo, quando era ancora intero, doveva essere stato bello. Indossa un giubbotto militare.e ha una medaglietta con i dati personali appesa al collo. Un reduce della Cecenia. Si ferma anche davanti a me. Confusa, gli do' 100 rubli. All'epoca, l'equivalente di 3 euro. Mi ringrazia come se gli avessi dato chissà cosa, mentre io desidero sprofondare per non assistere a quello strazio e giro la testa per non fissarlo negli occhi. Che razza di Stato può mandare i propri giovani in guerra e poi lasciarli senza un'adeguata assistenza? Tornata in Italia, ho comprato e divorato "Cecenia, disonore russo" e "La Russia di Putin", i primi due libri di Anna Politkovskaja. In realtà è stato come mangiare pane e vetro, visto che ogni pagina graffiava e faceva sanguinare. Non riesci a leggere più di due pagine di fila. Stacchi, riprendi fiato e prosegui per altre due pagine, poi chiudi di scatto il libro perché non sei in grado di andare avanti. E dopo pochi minuti lo riprendi in mano, perché non puoi non continuare. E ho dovuto accettare la verità sulla Cecenia che, affascinata come sono dalla Russia, per tanto tempo avevo rifiutato di riconoscere, scegliendo volontariamente di non prendere in considerazione determinati fatti. Povero Putin, con tutti questi terroristi qualcosa dovrà pur fare. Per questo capisco benissimo il processo di rimozione di tanti russi nei confronti dell'abisso di orrore ceceno, perché ci sono passata anche io. Non che ne vada fiera, ma mi ha aiutato a conoscermi. Quando ti rifiuti di sapere, è perché sei già perfettamente consapevole di come stiano in realtà le cose. Fingere non serve a niente. “Per il fatto che loro non vogliono sapere, noi moriamo” mi avrebbe detto un giorno un amico ceceno. Da quell'episodio è nato l'interesse per il Caucaso e per le sue guerre, unito all'insopprimibile urgenza di "fare qualcosa", che mi ha portato a riunirmi ad altre persone con la medesima sensibilità per fondare il Comitato per la Pace nel Caucaso e Rete Caucaso. Da lì sono venuti gli amici ceceni, poi ingusci, osseti, georgiani, armeni, abchazi, kabardini, balkari e persino abazini. Insieme ai russi, è chiaro. Da lì l'attivismo con collaborazioni con altre associazioni affini (Mondo in Cammino, Memorial Italia, Rondine, Studi senza Frontiere) e con Osservatorio Balcani & Caucaso, Peacelink, Peacereporter. Quel giorno a Mosca, di fronte a quel soldato, qualcosa in me si è spezzato. O meglio, si è svegliato. Ho smesso, almeno così spero, di girare la testa dall'altra parte per non vedere. E penso, in tutta sincerità, che questo sia un bene, anche se non è sempre facile.Quando ho scoperto che un soldato russo, Arkadij Babcenko, aveva scritto un libro sulla sua esperienza in Cecenia, ho deciso che dovevo assolutamente leggerlo. Sapevo che in italiano non era ancora disponibile. Ho provato a ordinarlo in lingua originale, però era esaurito e quindi l'ho acquistato in inglese. Era il periodo in cui mi ero data alla letteratura di guerra. "Memorie di un soldato bambino", di Ishmael Beah, sulla guerra in Sierra Leone. "Ragazzi di zinco" di Svetlana Aleksievic, sui soldati russi in Afghanistan. Sulla Cecenia avevo già letto "Patologii" di Zachar Prilepin, un altro veterano, anche lui giornalista e scrittore. Ho contattato Arkadij Babcenko, per chiedergli se potevo incontrarlo. Mi ha risposto subito, e la cosa mi ha favorevolmente colpita. I giornalisti della Novaja Gazeta rispondono sempre. Conservo gelosamente la risposta di Anna Politkovskaja ad una mia e-mail, in cui esprimevo la mia ammirazione per il suo lavoro e il suo coraggio, e l'effetto che i suoi scritti avevano avuto su di me. Quella donna famosissima e impegnatissima ha trovato il tempo di rispondermi. Giusto un paio di settimane prima che le sparassero. Ho fatto appena in tempo.... Giugno 2008. Ancora Mosca. Ancora un reduce della Cecenia. Incontro Arkadij Babcenko nella redazione della Novaja Gazeta. La Novaja Gazeta: il Rifugio di chi vuol sapere. Mi emoziono al pensiero di Anna Politkosvkaja, ma cerco di non pensarci troppo. Sono lì per Arkadij Babcenko. Fra poco mi troverò alla presenza di un autentico soldato russo che ha combattuto entrambe le guerre cecene. Uno che sa, perché c'era. Per tanto tempo ho desiderato incontrarne uno. E adesso, non so che cosa dire. La verità è che non sono lì per parlare, ma per ascoltare. Cosa posso mai dire, io, a qualcuno la cui esperienza di vita è infinitamente superiore alla mia, anche se dovessi campare cent'anni in più di lui? Continuo a pensare: ha la mia età e ha combattuto due guerre. Ha la mia età e ha combattuto due guerre. L'unico reduce di guerra che avevo conosciuto prima era mio nonno, per cui nel mio sfocato immaginario i veterani di guerra avevano tutti la sua età. Sarà stupido, ma non avevo mai pensato al fatto che mentre io me la spassavo all'università c'erano ragazzi come me che uccidevano o morivano. O entrambe le cose. E non avevo mai pensato di chiedere a mio nonno cos'era e com'era la guerra.Spero non ti dispiaccia se fumo. Mi rifiuto di parlare di Cecenia se non posso fumare. Esordisce così, Arkadij Babcenko, mettendo il pacchetto di sigarette sul tavolo. E comincio a fare le mie domande. A parlargli del suo libro. Gli dico che il suo è un libro che fa pensare. Quando ci siamo salutati, al termine della nostra conversazione, ho chiesto se c'era qualcosa che potessi fare. Sull'onda di quanto ci eravamo appena detti, mi ha incoraggiato a scrivere e tradurre. E così ho fatto. Da quell'incontro sono nati un'intervista: http://www.balcanicaucaso.org/Tutte-le-notizie/L-esperienza-della-guerra e un articolo: http://www.peacelink.it/nobrain/a/27020.html Qualche mese più tardi ho ricevuto la proposta dalla casa editrice per la traduzione. Ho accettato e mi sono messa immediatamente al lavoro. Naturalmente sono stata pagata, per il mio lavoro di traduzione. Ma il compenso non è stato la mia motivazione principale. Era la sensazione di fare qualcosa di buono e di doveroso, oltre che di interessante da un punto di vista professionale, a pungolarmi, anche quando all'ennesima revisione, quel testo sono arrivata ad odiarlo. Lo dovevo al suo autore, che avevo conosciuto. Non era solo un nome, era una persona. Ma soprattutto lo dovevo a quel soldato russo con cui avevo contratto un debito. Mii aveva ricordato che avevo un cervello e una coscienza da usare. Mii aveva fatto capire che solo perché non ero cecena o russa non voleva dire che dovessi per forza girare la testa dall'altra parte. Che quello che succedeva in Cecenia mi riguardava, eccome!!! Non sono forse anche loro persone, russi, ceceni, soldati o civili che siano? A un certo punto, quel giorno del giugno 2008, Arkadij mi ha chiesto bruscamente che cosa volessi. Ho replicato che volevo pagare il mio debito, pensando a quel soldato mutilato che mi aveva insegnato a pensare. Spero, con questa traduzione, di esserci riuscita. Almeno in parte.
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