Alla ricerca della verità sul massacro di Houla
Inizialmente, le Nazioni Unite erano convinte che dietro il brutale massacro di Houla ci fosse il governo siriano. Ma poi, qualcuno ha iniziato ad avere dei dubbi. Lo SPIEGEL è andato sul luogo per intervistare sopravvissuti e testimoni – e ha potuto ricostruire l’orribile carneficina.
Non accadrà niente, disse Mauiya Sayyid, un ufficiale di polizia in pensione, per rassicurare la sua famiglia, il pomeriggio del 25 maggio. Avevano paura ad uscire di casa, ma Sayyid ricordò alla sua famiglia che egli era stato un colonnello e che le truppe legate al regime erano rimaste illese nei raid precedenti.
Si rivelò un fatale errore di calcolo, di cui il colonnello Sayyid fu costretto a rendersi conto durante gli ultimi minuti della sua vita. Secondo le dichiarazioni di sua moglie e della figlia superstite, egli era nella sua stanza al secondo piano quando ha sentito gli assassini davanti alla casa mentre concordavano di far uscire prima le donne e poi uccidere tutti. Egli disse a sua moglie e ai figli di scappare. “Cercherò di temporeggiare per fermarli,” disse. Ci riuscì, ma pagando con la sua vita.
Il massacro di Houla alla fine di maggio, costato la vita a 108 residenti, secondo le Nazioni Unite, inclusi 49 bambini e 34 donne, la maggior parte di loro uccisi con ascie, coltelli e pistole, ha scioccato il mondo. Gli osservatori ONU hanno potuto accedere al luogo della carneficina, dove hanno potuto vedere i corpi e confermare in modo indipendente ciò che era accaduto lì. Gli ambasciatori siriani all’ONU e presso 12 stati, inclusa la Germania, sono stati espulsi. Il 1 giugno, il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha condannato il regime siriano e le sue milizie shabiha per il massacro, con Russia e Cina che hanno votato contro la risoluzione. Il governo di Damasco, comunque, ha attribuito la responsabilità dell’episodio ai “terroristi” e ha denunciato quello che ha definito uno “tsunami di bugie” sul massacro.
Ma poi le opinioni hanno cominciato a cambiare. Col passare del tempo, le Nazioni Unite hanno cominciato a mettere in discussione le loro conclusioni iniziali. Il 27 giugno, il Consiglio per i Diritti Umani ha discusso un rapporto preparato dalla commissione ONU sulla Siria, le cui conclusioni erano che non ci fossero prove sufficienti per stabilire chi avesse compiuto il massacro.
L’8 e il 14 giugno, il Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei principali quotidiani tedeschi, ha pubblicato due resoconti basati sulle affermazioni di testimoni oculari anonimi, secondo i quali membri dell’opposizione armata avevano commesso il massacro e avevano poi addossato la responsabilità al regime. Secondo i resoconti, 700 membri dell’Esercito Siriano Libero (ESL) erano arrivati ad Houla da diverse città per ammazzare le famiglie che si erano convertite alle fedi Alawita o Sciita e non si erano unite alla ribellione. All’inizio di giugno, Jürgen Todenhöfer, membro del parlamento Tedesco per l’Unione Cristiano-Democratica (CDU) di centro-destra, ha incalzato l’argomento e ha aspramente criticato i ribelli per quello che egli stesso ha definito “marketing del massacro”.
Entro il raggio
Dal 26 maggio, quando Alex Thompson con la stazione televisiva Britannica Channel 4 si è unito agli osservatori ONU ad Houla per qualche ora, nessun giornalista straniero è stato in città ad esaminare il luogo o a parlare direttamente con i superstiti delle famiglie massacrate o con i testimoni oculari dell’attacco.
Ora, invece, una squadra dello SPIEGEL è riuscita a visitare il luogo dove è avvenuto il massacro: Taldou, il più grande dei quattro villaggi ampiamente sparsi che formano il comune di Houla. Arrivare lì è stato complicato; il regime siriano non vuole nessun giornalista straniero nella nazione, e soprattutto non ad Houla.
La regione è anche circondata da un anello di villaggi alawiti, dove l’esercito siriano ha stabilito delle basi dalle quali continua a fare fuoco su Houla con carri armati ed artiglieria. Il regime fornisce armi ai villaggi, che in cambio riforniscono le milizie shabiha pro-regime, che hanno istituito posti di blocco nelle strade della zona e stanno partecipando agli attacchi.
La stessa Taldou, abitata da più di 15.000 persone prima della rivoluzione, è sotto il controllo dei suoi residenti. Essi hanno formato una unità dell’ESL, che li protegge dagli attacchi minori, ma non dai bombardamenti. Parti del villaggio, inclusa una delle aree dove ha avuto luogo il massacro, restano inaccessibili, perché sono entro il raggio dei cecchini dell’esercito posizionati su un crinale al di fuori della città.
La squadra dello SPIGEL ha trascorso due giorni a Taldou, dove ha potuto circolare liberamente, intervistare i superstiti delle famiglie Sayyid e Abdul Rassak e parlare con i testimoni. Alcuni dei testimoni hanno parlato davanti alla telecamera, altri hanno voluto restare anonimi, perché hanno ancora parenti in prigione o in città controllate dal regime. Per impedire alla memoria collettiva di interferire con le loro esperienze, i testimoni sono stati intervistati individualmente e d è stato chiesto loro cosa hanno visto e sentito.
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Dopo le preghiere del venerdì, il 25 maggio, I residenti di Taldou hanno formato le loro usuali marce di protesta contro il regime. Ma poi, nel primo pomeriggio, le forze dell’esercito hanno cominciato a bombardare pesantemente il villaggio dalle diverse basi circostanti. Le unità dell’ESL hanno lanciato una controffensiva su diversi posti di blocco armati. I testimoni, comunque, dicono che non ci fosse quasi nessun combattente dell’ESL a Taldou quel pomeriggio, e ciò spiega perché l’avanzata delle squadre della morte non ha incontrato resistenza. Era ancora pieno giorno quando è arrivata la prima ondata.
TESTIMONE I
Il pomeriggio del 25 maggio, Mohammed Faur Abdul Rassak, era diretto a casa sua in Sadd Street, via che si interseca con la traversa dove vivevano le vittime del massacro. Ha telefonato a casa sua dopo aver sentito dire che gruppi shabiha da diverse località dei dintorni stavano per arrivare a Taldou. “Stanno formando dei gruppi,” gli aveva detto suo padre, aggiungendo che c’erano molti spari e che le persone avevano paura ad uscire di casa. “Subito dopo le cinque, ero nei pressi della nostra casa, da dove si può vedere la strada per Fullah sulla collina. Circa 10 macchine e almeno 400 uomini si stavano avvicinando per quella strada. Alcuni indossavano uniformi militari, mentre altri portavano abiti civili. Alcuni avevano barbe lunghe e teste rasate. Alcuni degli uomini portavano fasce rosse al braccio.
Un secondo gruppo, di circa 30 uomini in uniforme, proveniva dagli impianti idrici dove è posta la base militare. Mi sono avvicinato lentamente a casa e mi sono nascosto in Sadd Street. Da lì, osservavo gli uomini mentre si disperdevano velocemente e piazzando prima un uomo con una mitragliatrice all’incrocio, così da poter monitorare l’area. I due gruppi probabilmente si sono incontrati lì. Ho visto quattro o cinque uomini, vestiti in abiti civili e in uniforme, entrare in ogni casa. Erano armati di Kalashnikov, e dovunque entrassero, udivo alcuni spari un po’ di tempo dopo. Alcuni soldati mi hanno visto, così sono scappato a circa 400 metri dal luogo. Ho udito altri spari, erano circa le sette di sera, ma sembrava più che fossero in segno di festeggiamento. Quando sembrò essere finita, qualcuno mi diede un passaggio con la moto, e trovammo 12 corpi della famiglia Samir Abdul Rassak nella prima casa in cui entrammo.”
TESTIMONE II
Dalla sua casa in Sadd Street, Jihad Raslan, un ufficiale che era a casa in licenza da quattro giorni, vide uomini armati in abiti civili e in uniforme avvicinarsi ad un uliveto tra il villaggio alawita di Fullah e Taldou. Erano circa le 6:30 del pomeriggio. “Ho visto più di 100 uomini, ma era difficile da stabilire. Il bombardamento si era placato. Sono uscito di casa con circospezione per vedere cosa stava succedendo. Una donna, che camminava verso di me proveniente da ovest e mi aveva riconosciuto, gridava: “Stanno ammazzando la gente!” . Intorno alle sei, vidi un'altra donna con ferite di arma da fuoco che giavceva sulla strada, e diceva: “Stanno entrando nelle case e stanno ammazzando!”
Ho aspettato e continuavo a vedere persone scappare fino alle sette. Mezz’ora dopo sono uscito con una torcia, perché l’energia elettrica era stata staccata. Poi sono entrato in tre case di fila. Nella prima casa, la casa di Samir Abdul Rassak, una donna era morta e c’erano diverse donne e bambini con ferite di arma da fuoco in un’altra stanza. Ho visto Mustafa Abdul Rassak giacere in una enorme pozza di sangue, respirava ancora, davanti alla seconda casa; la famiglia morta era dentro. E c’erano più di 20 corpi nella terza casa, che apparteneva ad Abu Shaalan Abdul Rassak. Ho aiutato a mettere i corpi nelle macchine e a portarli in moschea, e poi ho condotto la mia famiglia al sicuro.”
TESTIMONE III
Il tenente Malik Baqur, conoscente di Jihad Raslan, era a casa di suo cugino in Sadd Street quando udì che uomini armati stavano scendendo da Fullah a Taldou. “Fino alle sei ci fu un bombardamento tale che avevo paura di uscire fuori. Alle cinque e mezza circa, vidi 40 uomini in uniforme e in abiti civili salire a Fullah. La maggior parte di loro era a piedi, ma camminavano dietro un pickup grigio metallizzato con una mitragliatrice montata sull’alveo. L’avevo visto qualche giorno prima al checkpoint che era stato istituito a Fullah qualche tempo prima. Ero un po’ più in alto e riuscivo a vedere gli uomini finché furono a circa 100 metri dal villaggio.
Poi entrai di corsa a casa di Raslan, ed andammo insieme nelle case e vedemmo i corpi. Alcuni avevano i crani spaccati come se fossero stati colpiti dalla mannaia di un macellaio, mentre altri erano stati sparati alla testa, a mo’ di esecuzione, con un piccolo foro davanti ed uno più grande dietro. Ho contato 17 corpi sparsi dovunque in casa di Mustafa Abdul al-Rassak.”
Altri superstiti hanno visto il gruppo venire da Fullah, ed anche loro ricordano dettagli simili, come la fascia rossa al braccio vista da una anziana donna che vuole rimanere anonima: “Il soldato in uniforme verde che venne giù la indossava. Tutte le porte erano aperte, perché pensavamo ancora che stessero per fare un’incursione, come tante ce n’erano già state diverse volte prima di allora. Mia nuora gli disse che c’erano solo donne e bambini in casa, e che i nostri uomini erano a lavorare in Libano. Io ero in piedi dietro la porta quando lui entrò e iniziò subito a sparare.”
È stata l’errata convinzione che gli assassini fossero lì semplicemente per un'incursione a costare così tante vite umane – ed anche a salvare la vita di altre persone, come Mustafa Abdul Rassak. Egli si era nascosto in un pollaio abbandonato a 50 metri dalla casa, perché aveva paura di essere arrestato in quanto ribelle.
Dopo la prima ondata del massacro nel tardo pomeriggio, ci fu un’altra ondata in un’altra parte di Taldou tra le 11 di sera e le 4 del mattino. A causa del buio, nessuno dei superstiti vide da dove provenissero gli assassini. Ma dato che le case erano tra due posti di blocco dell’esercito, sarebbe stato quasi impossibile per i ribelli muoversi facilmente di casa in casa e sparare ai residenti senza uno scontro con i soldati.
TESTIMONE IV
Era sera tardi, e l’undicenne Ali Adil Sayyd era rimasto sveglio per ore a causa del suono dei bombardamenti vicini. “Ho udito delle voci fuori alle undici circa. ‘Spegnete le luci! Aprite la porta!’ dicevano. Ma l’elettricità mancava, comunque. Li ho sentiti colpire la parte bassa della porta, ma poi se ne sono andati.
Mi sono svegliato di nuovo prima delle 4, quando degli uomini sono entrati in casa. Mio fratello e io eravamo a terra nel soggiorno. Quando mia sorella Rasha ha cercato di scappare, uno degli uomini le ha sparato. Mio fratello Adil stava ancora dormendo quando un uomo gli ha sparato. Ha perso un pezzo della testa. L’uomo ha sparato anche a me, ma non mi ha colpito. Mi sono girato su me stesso e ho fatto finta di essere morto. Poi gli uomini si sono presi due televisori, la nostra lavatrice e il computer. Ho sentito il rumore di un BMB fuori”—un tipo di veicolo corazzato usato dall’esercito siriano.
Secondo Ali, suo fratello Nadir, gravemente ferito, “emetteva ancora suoni, come se avesse il singhiozzo. Poi è morto.”
Ali Adil Sayyid, l’unico sopravvissuto della sua famiglia, è un lontano parente di Abdulmuti Mashlab, membro del parlamento siriano. Questa circostanza ha indotto gli osservatori ONU ad ipotizzare che le persone siano state uccise a causa dei loro legami di parentela con un ufficiale del regime. Ma Mashlab, dice Ali, era solo lo zio della moglie di suo zio. Ali dice che lui e suo padre avevano partecipato a molte manifestazioni fino allo scorso autunno, “e prima compravamo sempre il kebab e la coca cola!” Ma suo padre fu arrestato a novembre, “e dopo di che lui ha avuto paura di andarci.”
TESTIMONE V
La famiglia di Muawiya Sayyid, l’ufficiale di polizia in pensione, viveva a poche case più in là nella strada. Sua figlia Maryam Sayyd era in casa, alla finestra, “quando un gruppo di soldati si sono avvicinati dall’impianto idrico per la prima volta, alle 4:30 circa del pomeriggio. Sparavano nell’aria e colpirono la nostra porta, ma poiché nessuno rispose, passarono oltre. Ci sentimmo in salvo. Mio padre era stato 30 anni in polizia, recentemente come colonnello. Non ci era mai successo nulla nelle incursioni precedenti.
Anche mio fratello era in casa. Era un soldato e aveva una gamba rotta, dunque non poteva muoversi. Erano quattro mesi che non otteneva la licenza, perché era di Houla, il che faceva di lui un sospetto.
Gli era stato concesso di tornare a casa solo a causa della frattura alla gamba. Ma noi non avevamo paura dell’esercito. E se fossero stati terroristi, come avrebbero fatto ad arrivare qui superando due checkpoint?
Ciò che ci faceva paura erano i proiettili che piovevano da ore nei dintorni. Era ancora giorno fuori, e la nostra casa è l’ultima della strada, dunque avevamo paura di scappare.
Alle 6 circa, abbiamo udito un carro armato per strada e degli uomini in una macchina che cantavano: ‘Shabiha per sempre! Con il nostro sangue e le nostre anime, ci sacrifichiamo per te, oh Bashar!’ Non avevamo mai udito ciò.
Eravamo in casa, con mio padre nella stanza che dà sulla strada e tutti gli altri nella stanza che dà sul retro. Alle undici circa di sera, abbiamo udito delle voci attraverso degli altoparlanti che dicevano: ‘Spegnete tutte le luci! Candele comprese!’ Andai da mio padre nell’altra stanza. Aveva appena sentito che c’erano degli uomini davanti alla porta che dicevano che avrebbero prima preso le donne e poi avrebbero ucciso tutti. Gli chiesi cosa dovessimo fare. Disse: ‘Andate! Io esco e cerco di fermarli.’
Eravamo 15. Non potevamo prendere con noi Ahmed, perché stava troppo male. Ma eravamo così spaventati e avevamo così tanta fretta che abbiamo dimenticato Sarah, la mia sorellina di 8 anni. Stava dormendo. Quando me ne sono accorta, sono tornata in casa con mia cognata. Abbiamo sentito gli uomini dire: ‘Vogliamo le donne!’ Mia cognata ha detto: ‘Non c’è niente che possiamo fare. Moriranno.’ Mi ha tirato fuori, e siamo scappate.”
TESTIMONE VI
La madre di Maryam Sayyid, Hana Harmut, era rimasta in casa un attimo in più e, nel buio, non vide dove erano andati gli altri: “Sono tornata nel retro della casa, dove ho udito le voci degli uomini all’interno. Ho udito Ahmed gridare, e poi ho udito Sarah mentre si svegliava e iniziava a piangere e gridare forte ‘ Mamma’. Ho sentito mio marito gridare: ‘Non Ahmed! Non Ahmed!’ Poi ci furono alcuni colpi. Non so dire quanti. Poi quiete per un po’. E poi ho sentito dei rumori come se stessero facendo a pezzi la cucina. Forse stavano cercando dei coltelli.
L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che dovevo andar via da lì, così mi sono nascosta in un granaio lì vicino dove normalmente tengono gli animali. Ho sentito le voci degli uomini fino alle due o le tre del mattino, e poi è tornata di nuovo la calma.”
La famiglia Sayyid non aveva nè un ruolo importante nell’opposizione, nè sosteneva il regime. I superstiti credono che il nome del padre, Muawiya, sia stata una delle ragioni per cui i Sayyid sono stati scelti come bersaglio. Muawyia era anche il nome di un califfo che, più di 1,300 anni fa, combattè contro gli imam che gli sciiti venerano come santi, e sulle cui morti si piange ancora oggi sotto forma di rituale. Il nome è molto offensivo per gli sciiti radicali e, in misura minore, per gli alawiti, che fanno parte dello stesso gruppo religioso. E certamente non sarebbe il nome di un uomo che si era convertito all’Islam sciita.
Secondo i superstiti, tutti residenti a Taldou e in altre parti di Houla, non ci sono famiglie sciite o alawite a Houla, nè ce ne sono mai state prima – così come non ci sono famiglie sunnite nei villaggi alawiti dei dintorni. Benché ci siano stati alcuni matrimoni tra famiglie alawite e sunnite in passato, la moglie, dicono gli abitanti del luogo, si è sempre spostata nel villaggio del marito convertendosi al suo credo.
Ma cosa dire degli anonimi testimoni oculari di cui si riporta che abbiano detto che le vittime del massacro di Houla non fossero affatto sunniti o membri dell’opposizione, ma sostenitori del regime?
TESTIMONE VII
Il colonnello Mohammed Tayyib Baqur, che ha servito l’esercito siriano per due terzi della sua vita e che ha abbandonato da qualche settimana, ha lavorato di recente nella divisione politica del Ministero della Difesa. Oggi racconta che, il 28 maggio, ha ricevuto una chiamata da Jamil Hassan, il capo del Syrian Air Forces intelligence e uno dei membri di spicco del regime: “Mi ha detto di presentarmi il 2 giugno. Ha sottolineato il fatto che io fossi di Houla, e che era in atto una cospirazione internazionale contro la Siria. Per questo motivo, voleva che io trovassi delle persone, il più povere possibile, di Houla o dei dintorni. Io avrei dovuto portarle a Damasco così che loro potessero far circolare la versione del regime sul massacro. Disse che la gente di Houla sarebbe stata pagata, e anch'io. Poi chiamò il direttore del suo ufficio e gli disse di darmi 25.000 sterline siriane.” Che equivalgono a poco più di €300 o a circa $385.
Dopo 35 anni nell'esercito, dice Baqur, si è reso conto che era giunto il momento di schierarsi dall'altra parte. “Non volevo più farne parte, così ho preso la mia famiglia e sono fuggito.”
Se i ribelli avessero davvero commesso il massacro, perché l'esercito ha continuato a sparare e mitragliare su Taldou per mesi, inclusi i giorni in cui gli inviati dello SPIEGEL erano lì? E se l'ESL era dietro il massacro, perché un largo numero di ufficiali dell'esercito originari di Houla sono passati all'ESL dopo?
Dopo il massacro, gli abitanti di Taldou hanno sepolto i loro morti in una piazza nel centro del villaggio. Essi dicono che c'erano più corpi dei 108 contati dagli osservatori ONU. Benché questo non possa più essere verificato, ha un senso, perché è stato possibile recuperare molti dei corpi solo giorni dopo il ritiro delle truppe.
Siamo a metà luglio e pochi operai coraggiosi stanno ancora spalando terra nuova sulle tombe, ora che il terreno è sprofondato. Vogliono sostituire i mattoni che erano stati sparsi intorno al luogo con un recinto di pietre. Almeno, sembrerà dignitoso, dice uno degli uomini. Ma non è una buona idea stare lì intorno troppo a lungo, avverte. “A volte i soldati sparano razzi verso questa direzione dall' impianto idrico.”
Qualche strada più in là, sulla piazza principale di Taldou, in rovina, dove l'esercito manteneva un checkpoint che ha abbandonato solo sei giorni dopo il massacro, ci sono dei graffiti su un muro che la gente del posto sostiene abbiano scritto i soldati: “Non siate troppo turbati! A volte i cani danzano sul leone, ma loro nemmeno lo sanno che è il leone.”
Il nome Assad significa leone in arabo.
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