La guerra uccide non solo d'estate
Oltre l'incedere delle notizie che arrivano dai media, ecco una testimonianza che esce dalla cronaca. La tragedia che si consuma in Iraq raccontata da chi ha conosciuto i popoli adesso coinvolti e che fino a pochi mesi fa vivevano una pace ricca di sviluppo e di aspettative. Anche qui lo stile di Andrea amalgama dramma e storia, approfondimento culturale e voci raccolte dai suoi contatti nel Kurdistan il cui legame si è sempre mantenuto. La penna del cronista non lascia spazio a proprie emozioni ma, ne sono sicuro, nel cuore di Andrea vive un forte sgomento, accresciuto dall'improvviso mutare degli equilibri faticosamente raggiunti nella regione al nord dell'Iraq. Il viaggio di tre anni fa, ricco di scoperte nel territorio degli Yazidi, riporta immagini adesso presenti sono nel ricordo e, forse, nei futuri libri di storia. Il popolo curdo consapevole di avere vissuto una pace provvisoria. La minoranza yazida memore di innumerevoli persecuzioni nel passato. La storia sembra ripetersi ma questa volta il rischio di sconvolgimenti permanenti nei popoli della regione è tragicamente reale. Roberto Del Bianco
dove gli yazidi compiono il pellegrinaggio almeno una volta nella vita. Quando a
Da giorni sono in contatto con Salar Hussein referente istituzionale per Erbil di importanti progetti di cooperazione internazionale. Mi conferma che la preoccupazione nel popolo curdo è tanta, alleviata soltanto dalle notizie che la comunità internazionale finalmente si sta muovendo. Che non sono soli in questa partita per la sopravvivenza. La televisione curda ha dato risalto all’annuncio del Ministro degli Esteri Federica Mogherini, della possibilità di un ponte aereo umanitario per portare nel nostro Paese i feriti che necessitano di urgenti cure ospedaliere. “Anche Francia, Canada, Australia si stanno muovendo – mi dice Salar – in città continuano ad affluire persone che hanno abbandonato le loro case senza poter portare niente con sé. La situazione è precipitata tra il 2 e il 3 agosto, con la conquista da parte degli jihadisti di Sinjar, 50 km. a ovest di Erbil. Il 6 agosto, l’attacco a Machmur e Guer, 50-60 km. a sud est della mia città, riconquistate quattro giorni dopo dai peshmerga, con l’appoggio dell’Air Force e dell’aviazione irachena”.
Erbil, la cui cittadella fortificata, al centro della città, risale a un periodo fra i 6000 e gli 8000 anni fa, è oggi una megalopoli di quasi due milioni di persone. Lontani gli anni di Saddam Hussein, grazie ai proventi del petrolio la città è tutta un cantiere. Quartieri interi sorgono nel volgere di pochi mesi, attraversati da strade di comunicazione a più corsie, il traffico caotico ricorda quelli di Roma o Milano nelle ore di punta. Nuove, immense piazze, fontane dalle caleidoscopiche illuminazioni, ristoranti dagli improbabili, esotici nomi italiani. Questa è la Erbil attuale. Prima l’ondata dei profughi siriani, ora quella terribile e devastante degli yazidi in fuga, stanno lentamente mettendo in ginocchio la città, altresì minacciata alle sue porte dai miliziani dello Stato islamico.
Sulla Rete, in Iraq, girano filmati dell’Isis. Un pick up corre sul rettilineo che taglia il deserto. Dal camioncino in corsa, un uomo, il kalashnikov in braccio – l’operatore al fianco - spara senza sosta sui malcapitati conducenti delle auto che incrocia nella sua mortale corsa. Una mattanza nihilista fine a se stessa. Un messaggio di orrore di un minuto e quarantatre secondi che si rifà agli istinti più arcaici dell’uomo.
In Medio Oriente è in atto la “guerra più lunga”, secondo la definizione del giornalista liberal Peter Bergen. Una guerra che convenzionalmente è iniziata con l’attacco alle Torri Gemelle, ma il cui prodromo risale alla metà degli Anni Novanta, quando si comincia a parlare di Al-Qaida e del suo leader Osama Bin Laden. In tutta la Regione siamo entrati in una “nuova era post-cristiana” (ancora Peter Bergen) che si protrarrà per lungo tempo e che è facile prevedere, coinvolgerà l’inquilino della Casa Bianca che sarà eletto nel 2016. Dopo l’invasione dell’Iraq di George W. Bush, il “vaso di Pandora” si è rotto definitivamente. Dissolto il millenario caleidoscopio di comunità etniche e religiose che ha sempre contraddistinto l’intera area. Non soltanto sciiti, sunniti e curdi, anche turcomanni, cristiani armeni e assiro caldei, ebrei, mandei, yazidi, shabak. Buona parte degli analisti concordano su una ravvicinata implosione dell’Iraq. Sulla concreta possibilità che il Paese - creato nel 1921 dalle Potenze vincitrici del conflitto mondiale – è destinato a frantumarsi in tre Stati, sciita, sunnita e curdo. Lo stesso Obama, in una intervista di questi giorni, più in generale parla di un possibile riequilibrio degli assetti geografici e politici - dal bacino del Mediterraneo all’Iraq – fermi in gran parte agli Anni Venti (con l’eccezione, aggiungiamo, del conflitto israelo-palestinese nato “soltanto” sul finire degli Anni Quaranta)
Le parole di saluto di Salar Hussein mi arrivano dirette allo stomaco: “Pregate per noi”. Nella loro naturalità, dicono più di tanti discorsi. Rifacendosi al titolo del recente film di Pif, potremmo dire che la guerra uccide solo d’estate, perché questa è una terribile estate di guerra. Siria e poi Gaza e il Kurdistan iracheno. Damasco e le città martiri siriane, una Striscia di terra contesa in un angolo del Mediterraneo orientale, la piana dell’antica Ninive sono in queste settimane teatro di violenze infinite. In comune, la crescente difficoltà di trovare soluzioni reali e durature ai conflitti in corso. Il rischio concreto, oramai è che la guerra non uccida solo d’estate, ma che estenda la sua piovra assassina su tutte le stagioni.
Da Erbil ci vogliono quasi tre ore di auto per raggiungere la valle di Lalish. Attraversiamo villaggi aggrappati alle brulle montagne dell’altipiano mesopotamico: Gawlan, Bardarash, Ali Ghana, Chrra. La qualità della vita scende rapidamente. Il lavoro quotidiano serve ancora per piegare ai desideri dell’uomo quest’arcigna terra. Così come il millenario rapporto tra l’uomo e gli animali, convive, ancora oggi, all’interno dell’unico spazio abitato.
Attraversiamo il villaggio di Shekhan e da lì il bussino sale fino a Lalish, il centro religioso degli yazidi, dove ogni credente viene in pellegrinaggio almeno una volta nella vita a visitare la tomba del profeta Adi (XII sec.). Religione pregiudaica nata quattromila anni fa, raccoglie cinquecentomila credenti, la maggior parte concentrati in questa regione. Lalish si trova sessanta km. a nord-ovest di Mosul.
Molto è stato scritto sugli yazidi e sui diversi elementi che nel tempo sono confluiti nella loro religione, a cominciare da quelli che si rifanno a Mazda e a Zaratustra. Certamente essi assegnano grande importanza a principi morali universali quali la pace, l’onestà e la tolleranza.
Un tempo questa religione incuteva timore alle popolazioni limitrofe, a causa della sua diversità rispetto a quelle professate nel resto del Kurdistan. A scriverne è un cronista ante litteram, l’italiano Alessandro De Bianchi. Al comando di un drappello di cavalieri della Guardia Imperiale Ottomana, dal 1855 al 1858 percorse la regione che delimitava il confine orientale dell’Impero Turco. Ogni volta, nei villaggi di montagna, De Bianchi era circondato dalla curiosità di popolazioni, che mai avevano visto un europeo. Per liberarsi da quest’attenzione ricorrente e oppressiva, si dichiarava yazida.
Entriamo nel Battistero, costruito in località Sorgente Bianca. Come gli altri luoghi di culto, spoglio e buio. Ci togliamo le scarpe. Scavalchiamo la soglia – sacra per gli yazidi – che i piedi non possono toccare.
Visitiamo il tempio dedicato al Sole, con i tetti conici dalla punta dorata. L’astro che discende con ventiquattro raggi – le scanalature dei coni – attraverso i sette livelli dell’atmosfera, rappresentati da altrettanti gradoni di pietra.
In un cortile sottostante, un altro tempio con la tomba del profeta, ricoperta di drappi dai colori vivissimi. I rossi, i gialli, i verdi, gli arancioni dei tessuti sono così sgargianti che quasi rischiarano da soli l’oscurità circostante. Scendiamo ancora, sempre senza le scarpe. Piccole porte scavate nella roccia immettono in spazi irregolari che si perdono in cunicoli oblunghi. Sotto i nostri piedi, la pietra è perennemente bagnata per la presenza di corsi d’acqua sotterranei. Lungo le pareti, allineate su più file, decine di giare colme di un liquido denso e oleoso, nero come la pece, che con il tempo è colato e si è insinuato tra le pietre sconnesse del pavimento. E’ l’olio estratto dagli ulivi – come quello secolare, il tronco gigantesco e bitorzoluto che abbiamo visto nel cortile - con il quale ogni sera si accendono, in segno di buon auspicio, le candele nella valle di Lalish. Sopra le porte dei templi sono appesi piccoli oggetti di argilla, fiori secchi, uova colorate delle quali restano i soli gusci. Sono stati messi in occasione del capodanno yazida che si celebra il quattordici aprile del nostro calendario. I festeggiamenti, invece, avvengono il mercoledì successivo...
Patrimonio dell'Umanità: http://www.peacelink.it/pace/a/34101.html
Incontri di amicizia e di pace: http://www.peacelink.it/pace/a/36249.html
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