I primi giorni di scontri a Mitrovica
Pristina. Qualcuno mi chiedeva di scrivere degli appunti su quel che accadeva. Gli appunti ci sono, tutti segnati, per sempre, sul bloc notes della memoria. Le penne quelle non c'erano, rimaste con tutto il resto nella mia casa a Mitrovica sud.
Finalmente siamo liberi, noi comodi e privilegiati profughi di questa battaglia che non volevamo, non speravamo e di cui siamo stati inermi testimoni.
Mercoledi' 17 marzo era una mattina di splendida primavera a Mitrovica, nessuno avrebbe potuto immaginare l'imminente cambio di stagione verso il torrido non estivo ma infernale.
Contavano solo 6 giorni dal mio arrivo in questa terra tormentata, il Kossovo.
Ero riuscito con circospezione e cautela a vivere qualche giorno di normalita': lunedi' avevo conosciuto i nostri operatori locali, proposto loro il mio progetto di comunicazione verso il quale sembrava esserci un bell'entusiasmo, martedi' avevo partecipato alle prime attivita' con i bambini nel quartiere misto a nord di Bosniak Mahala.
Tutto sembrava maledettamente normale, come quando avevo per la prima volta messo piede in quella citta' e mi aveva colpito quella maledetta normalita'. Dusan, Daniel, Sokol, Naser, Advje (che aveva subito preso a chiamarmi Giovanni risultandole il mio nome piuttosto ostico) ora posso solo collegare i loro nomi ai volti grazie alle premurose comunicazioni che Simona, il mio capo progetto, mantiene con loro per assicurarsi che stiano bene, loro che hanno creduto nell'integrazione, in una Mitrovica migliore, in un Kossovo migliore.
Siamo ancora qui, non ce ne siamo andati, solo a poca distanza da voi, per dire che la costruzione della pace e' un cammino difficile e che non vi faremo mancare il nostro appoggio.
Noi non fuggiamo nelle nostre comode case o a riabbracciare i nostri premurosi cari perche' se un mondo migliore e' possibile lo e' qui e subito, non domani, non per conto di chissa' chi.
La notizia dell'annegamento dei bambini albanesi ci era giunta in ufficio in mattinata, una mattinata apparentemente normale, sarebbe stata l'ultima. Ci avevano riportato che erano stati i serbi a spingere i bambini nel fiume. In seguito sarebbe arrivata prima la smentita del portavoce UNMIK, Chapell, poi la conferma della mancanza di prove <http://www.balkanpeace.org/hed/archive/mar04/hed6307.shtml> che
dimostrasse l'accaduto. Ci siamo precipitati in strada poco dopo sentendo il vociare dalla strada, la scena ci si e' subito presentata per quello che era: una sommossa, e il gas dei lacrimogeni sparati dal carro UN ce lo confermava. Solo dopo avremmo saputo dai testimoni privilegiati (gli UNMIK di Jugobanka, finestre vista ponte) che le manifestazioni albanesi in mattinata erano state ben 3: due pacifiche (la seconda con una corposa presenza di bambini), la terza violenta.
Di li' a poco il ponte metallico di Mitrovica si e' messo a suonare, scosso dalle pietre che da una parte all'altra avevano cominciato a volare, un triste preludio alle pietre di metallo che sputate dalle armi da fuoco qualche istante dopo avrebbero ucciso. E in tutto questo le pochissime forze KFOR ci sembravano inermi e impreparate ad affrontare la situazione, curioso per un paese militarizzato ormai da anni. Per noi giusto il tempo di attraversare la passerella pedonale che permette l'accesso alle tre torri abitate dagli albanesi nella parte nord, nessuno ce lo ha impedito, nonostante la zona sia presidiata dai soldati francesi (ce ne erano 4 in quel momento), tutto avveniva sul ponte principale a pochi metri, e noi volevamo incontrare il nostro operatore serbo che ci attendeva per quella che doveva essere la nostra attivita' giornaliera nel quartiere di Bajnska. Non c'e' stato tempo per quella attivita', perche' era iniziata la battaglia, che intanto si era estesa
anche alle torri con una fitta sassaiola da parte serba e una donna a urlare la sua disperazione: "perche' ci tirate le pietre, noi non siamo colpevoli". Lo stesso grido di dolore che sara' risuonato poco dopo nei villaggi serbi in fiamme e dalle pietre, se solo avessero la parola, dei monasteri e delle case ormai perduti per sempre. Noi, il cuore in gola, iniziavamo il nostro piccolo calvario rifugiandoci prima in casa
dell'operatore Sokol, poi sarebbe stata la volta della Jugobanka, per continuare con il Belvedere francese, l'abitazione di una nostra funzionaria presso la rappresentanza diplomatica a Pristina e infine quella di alcuni amici.
Cominciava la ridda di rumors, indiscrezioni, notizie carpite, ma non avremmo piu' visto.
Purtroppo l'udito non ci ha impedito, per la prima volta in vita mia, di ascoltare la guerra, gli spari che ci hanno accompagnato per due notti intere, senza sapere dove fossero diretti ne' da chi fossero sparati.
Giambattista Pace
Collaboratore Assopace
Quel ponte che segna il confine
In questo momento il personale italiano dell'Associazione per la Pace,
una cooperante ed un volontario, sono rinchiusi all'interno della base militare della Kfor francese a Kosovska Mitrovica. Non sono stati "evacuati" come molto altro personale internazionale in queste ultime ore in Kossovo, ma semplicemente "riallocati" in un luogo più sicuro rispetto al quartier generale dell'Onu. Le condizioni di sicurezza per trasportare il personale internazionale lontano dagli scontri non c'erano. Sono stati scortati dai blindati ieri notte e ora si trovano al sicuro all'interno della base miltare ma ancora vicini a quella linea di
confine geografico, politico ed etnico che è il fiume Ibar.
Quante volte abbiamo attraversato quel ponte dopo il 1999 non lo so. Una volta non ci hanno permesso di attraversarlo con l'auto perché c'era il coprifuoco, costringendoci a lasciare l'auto a sud e trasportare i bagagli fino a casa nella parte nord. Eravamo presenti l'ultima volta che si sono verificati scontri di una certa gravità, nell'aprile del 2002, e in quell'occasione lo attraversammo solo dopo 24 ore di attesa, qualche serbo e un soldato francese feriti. Poi siamo riusciti ad
attraversarlo insieme al primo gruppo di turisti italiani nel Kossovo del dopo-guerra, nell'estate di quello stesso anno. E siamo riusciti a farlo attraversare per la prima volta anche ai bambini serbi e rom per recarsi a realizzare il circo della pace a sud, nell'estate 2003, prima attività multi-etnica dopo anni di lavoro parallelo con le comunità.
Lo abbiamo attraversato l'inverno scorso, quando una granata è stata lanciata contro la sede della polizia dell'Unmik, e lo abbiamo attraversato questo inverno quando neanche controllavano più i documenti (e sembrava quasi una città normale), se non fosse che i serbi a nord avevano già cominciato a bruciare le case dove si apprestavano a ritornare gli albanesi, e gli albanesi a sud ogni tanto ammazzavano qualche serbo tanto per scoraggiare ogni tentativo di ritorno. I rom
continuavano a bruciare solo vecchi legni e copertoni per riscaldarsi, troppo poco coperti con i dieci gradi sotto zero delle serate invernali.
Dopo di noi e insieme a noi hanno cominciato ad attraversarlo anche gli operatori locali, serbi che con molta prudenza si sono spinti dall'altra parte, albanesi e rom che con altrettanta prudenza hanno messo il naso al di fuori delle loro enclave. Sono questi i segnali "pericolosi" che hanno convinto le forze nazionaliste a imprimere un'accelerata all'escalation di violenza da tempo programmata per raggiungere la tanto agognata soluzione definitiva?
Anche questi.
Fanno paura, a chi fomenta i disordini, a chi guadagna con il traffico di armi, a chi si arricchisce in un sistema economico poco trasparente, a chi si autolegittima con le armi, tutti i segnali di ripresa del dialogo e di democratizzazione. Le ultime dichiarazioni di Rexhepi e Ivanovic andavano in questo senso. La gente lo voleva.
Abbiamo incontrato decine e decine di giovani durante questi anni e in tutti era forte l'esigenza di tornare alla normalità, anche se questo significava lavorare con la controparte. I fatti dimostrano il contrario? No, i fatti dimostrano semplicemente che non appena queste esigenze si manifestano vengono stroncate sul nascere. E' questa la prima guerra che si combatte in Kosovo come in altri territori non
pacificati come la Bosnia. Troppi interessi economici e politici dietro il conflitto per consentire il ritorno alla normalità.
Quali mezzi abbiamo messo in campo per condurre questa guerra? Pochi ed inadeguati. Distolti verso nuove emergenze, Afghanistan prima, Iraq dopo. Chi come noi è rimasto a Mitrovica, lo ha fatto con pochi spiccioli della cooperazione decentrata (grazie al Comune e alla Provincia di Venezia). Il grosso della cooperazione internazionale ha finanziato la ricostruzione delle case (ora ridistrutte), delle strade (che i mezzi cingolati pesanti distruggeranno nuovamente), o degli ospedali (ancora divisi etnicamente), oppure il ritorno dei profughi (prima discriminati, poi sfollati, poi vittime) ma solo una piccola parte la formazione al dialogo e alla tolleranza, l'empowerment dei gruppi nonviolenti, la democratizzazione diffusa e dal basso, il disarmo delle milizie di entrambe le parti. L'Uck non solo è stato tollerato (tranne alcuni esponenti di spicco incriminati dal Tpi con conseguenti proteste dei nazionalisti) ma è stato trasformato in formazione di polizia ufficiale, i paramilitari serbi tollerati per par condicio. Si dice ora: "il fallimento dei tentativi di dialogo", "il fallimento delle politiche inter-etniche": si tenta di costruire (sul terreno paludoso dei bombardamenti Nato) un palazzo con dieci sacchi di sabbia e uno di cemento, il palazzo crolla e si da la colpa al cemento.
Associazione per la Pace
Coordinatore Nazionale Davide Berruti
http://www.assopace.org
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