L'impatto delle armi leggere in Kenya
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Quando Hussein Abdi è ritornato a casa una sera dopo un viaggio a Wajir, nel Kenya nord-orientale, ha trovato una scena agghiacciante ad accoglierlo: i corpi di sua moglie e dei suoi tre figli erano a terra, sparsi nell’area del suo recinto, e tutti i suoi tremila capi di bestiame e cinquecento cammelli erano spariti.
Quella appena descritta è la scena di apertura di uno spettacolo recitato a Nairobi da alcuni membri del comitato per la pace del distretto di Wajir, per spiegare l’impatto che le armi leggere stanno avendo sulla popolazione che vive nel nord del Kenya. Scene come questa erano rare negli anni Sessanta, quando un fucile d’assalto Ak-47 costava sessanta capi di bestiame, spiegano, ma oggi lo stesso fucile costa appena il prezzo di un pollo.
L’abbondanza di armi ha dato il via a un commercio transfrontaliero in rapida espansione, che è strettamente legato ai crescenti livelli di insicurezza che caratterizzano l’area del Corno d’Africa. Le vaste e secche terre della regione sono abitate da diverse comunità tradizionalmente pastorali, che si muovono liberamente tra i confini nazionali, mantenendo così dei legami con i parenti che vivono nei paesi vicini. Ma la competizione tra questi gruppi per il controllo di risorse limitate, in particolare acqua e pascoli, ha provocato in anni recenti molti sanguinosi conflitti.
Nel Kenya nord-occidentale la larga disponibilità di Ak-47, Uzi e altre armi semiautomatiche ha militarizzato gli scontri tra i Karamojong, i Turkana, i Pokot e i Sabiny. Lo stesso scenario si presenta a nord-est, dove le armi, che possono essere acquistate con estrema facilità in Etiopia e nella Somalia dilaniata dalla guerra, sono servite a intensificare le incursioni mortali dei banditi e le rivalità tra i clan. I confini lunghi e permeabili del Kenya non solo facilitano il flusso d’armi incontrollato proveniente dai paesi vicini, ma anche il riversarsi sul suo territorio degli effetti degli stessi conflitti. Il banditismo armato e l’attività della guerriglia lungo il confine etiope hanno provocato centinaia di vittime negli ultimi anni, cui si sono sommati rapimenti e il furto di migliaia di capi di bestiame.
Le comunità del nord, comunque, a modo loro si stanno organizzando per trovare il modo di aumentare la propria sicurezza e risolvere i conflitti senza ricorrere all’uso delle armi. “In passato portavamo con noi delle lance, ma ora abbiamo le pistole – spiega Hussein Ahmad, che guida il comitato per la pace del distretto nella città orientale di Isiolo – Adesso, però, facciamo ricorso a dei metodi di riconciliazione tradizionali, che prevedono che le dispute vengano risolte con un pagamento in bestiame, piuttosto che con la vita”. Secondo Ahmad, il compito dei comitati distrettuali per la pace è quello di aiutare le autorità locali a identificare i gruppi armati, localizzare le armi e facilitare la loro resa volontaria. A Wajir, per esempio, una dichiarazione di pace firmata dagli anziani dei clan ha permesso ai comitati di convincere i gruppi armati a consegnare le armi, nell’ambito di un’iniziativa tuttora in corso. Ahmad ha però aggiunto che questo genere di iniziative non potranno avere successo se il governo non rafforza la sicurezza delle comunità locali. “Se non facciamo in modo che queste persone si sentano al sicuro – ha spiegato – non si separeranno dalle loro armi”.
Ahmad ha sottolineato anche che le politiche di distribuzione nazionale e la discriminazione storica nei confronti della popolazione del nord hanno reso questa regione la più povera del paese. “I gruppi dediti alla pastorizia occupano l’80 per cento del territorio, ma la distribuzione iniqua delle risorse, promossa dai colonialisti, è stata perfezionata dai successivi governi del Kenya indipendente. La marginalizzazione delle comunità pastorali è una ricetta destinata a generare conflitti”.
Studi recenti hanno scoperto che gli uomini più giovani, in assenza di opportunità economiche a Wajir, sono migrati in Somalia alla ricerca di armi leggere, per ritornare in patria e dedicarsi al banditismo e alla criminalità. Per Gilbert Khadiagala, un ricercatore che si occupa delle iniziative di raccolta delle armi, la vicinanza di nazioni segnate dalle guerre e il lassismo nell’applicazione delle leggi si traducono in una disponibilità illimitata di armi leggere. “La protezione dello Stato costituisce l’elemento cruciale per l’effettivo disarmo nel nord del Kenya, e la sua assenza, di conseguenza, è il principale impedimento. Promuovere la sicurezza nelle comunità marginalizzate è importante, proprio perché la cultura dell’auto-protezione, che è endemica all’interno delle comunità pastorali, è la conseguenza del loro abbandono da parte dello Stato”.
Secondo la “Campagna per il Controllo delle Armi”, guidata da una coalizione di tre organizzazioni internazionali, ovvero Oxfam, Amnesty International e l’International Action Network on Small Arms (Iansa), il giro d’affari annuale del mercato globale delle armi leggere è pari a 21 miliardi di dollari. Sono circa 639 milioni quelle presenti nel mondo, e 30 milioni quelle che si ritiene circolino nell’Africa sub-sahariana, il 60 per cento delle quali in mano ai civili.
Oltre all’instabilità regionale che ne deriva, sono i costi umani ed economici provocati dalla grande disponibilità di armi a lasciare sbalorditi. Una persona muore ogni minuto per episodi di violenza legati all’uso di armi da fuoco, e nello stesso lasso di tempo vengono prodotte 15 nuove armi. Devono essere prese delle iniziative urgenti per fermare il mercato irresponsabile delle armi e ridurre il numero di quelle che sono in circolazione, spiegano i promotori della campagna, e questo compito spetta anche a chi le produce. “Sul fronte del controllo delle armi i governi stanno agendo troppo lentamente – ha spiegato il rappresentante del Iansa Ochieng Adala – Rivolgiamo un appello ai governi più potenti del pianeta, che sono i maggiori fornitori di armi del mondo, a prendere il controllo della situazione”.
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