Conflitti

Gli artefici della guerra in Iraq sanno rispondere solo una cosa ai loro critici: statevene zitti!

Grazie al servilismo di gran parte della stampa, l'amministrazione USA ha avuto
vita facile
14 aprile 2004
di Robert Fisk - trad. Patrizia Messinese

Chiudete il becco. Questa è la nuova linea di politica estera dei nostri
padroni. Quando il senatore Edward Kennedy ha definito l'Iraq "Il Vietnam di
George Bush", il segretario di Stato Colin Powell gli ha chiesto di "avere più
discrezione e di stare attento" ai propri commenti. Mi ricordo che quando gli
USA hanno dato inizio ad i bombardamenti in Afghanistan, il portavoce della
Casa Bianca dichiarò che certi giornalisti "facevano domande che il popolo
americano non avrebbe voluto venissero fatte". Nei primi anni '80, quando
scrissi di soldati iraniani che su un convoglio militare diretto a Teheran
sputavano i polmoni, sangue e muco, per aver respirato il gas
mostarda(iprite)di Saddam, un funzionario degli affari esteri disse al mio
editore del The Times che il mio articolo non "era d'aiuto". In altre parole:
smettetela di criticare il nostro alleato, Saddam.

Così, a quanto pare, questa linea di comportamento era in voga già da un po'.
Quando le autorità delle forze d'occupazione hanno tenuto deliberatamente sotto
silenzio gli attacchi contro i soldati americani dopo l'inizio dell'occupazione
in Iraq l'anno scorso, ai giornalisti che indagavano su queste violenze è stato
detto che quello non era un problema diffuso, che solo piccole aree dell'Iraq
erano irrequiete. Per non parlare dell'epidemia di bocche sigillate quando
alcuni di noi, l'anno scorso, hanno deciso di dare un'occhiata più attenta alle
leggi sulla stampa promulgate dal proconsole Paul Bremer. Fu approntata
immediatamente una squadra di avvocati della "Autorità provvisoria della
coalizione" per vedere in che modo poter legalizzare la chiusura e la censura
dei giornali iracheni che "incitavano alla violenza", ed ogni volta che
sollevavamo delle questioni al riguardo, il portavoce dell'APC (ed il suo
attuale segretario capo, Dan Senor, ha usato la stessa frase la settimana
scorsa) annunciava che "non tollereremo incitamenti alla violenza".

Così, quando la settimana scorsa Bremer ha fatto chiudere il piccolo, ridicolo
settimanale di Moqtada Sadr (che aveva una diffusione pari ad un quarto di
quella del Kent Messenger), incitando così apertamente a quella stessa violenza
che diceva di voler evitare, cosa ha dichiarato l'Alto Commissario americano?
"Questo non verrà tollerato". Il giornale aveva commesso una colpa gravissima:
aveva condannato Paul Bremer per aver portato l'Iraq sul "sentiero di Saddam",
un articolo che Bremer ha condannato in dettaglio con una lettera (scritta in
un arabo penoso) all'editore del giornale "miscredente".

Io sono assolutamente contrario a qualsiasi incitamento alla violenza, sia
chiaro. Proprio come sono contrario all'incitamento alla guerra per mezzo di
false dichiarazioni sulle armi di distruzione di massa e su collegamenti
segreti con Al Qaeda. Proprio come sono contrario all'uso dell'esercito di
Saddam e dell'esercito americano contro le città irachene. Perché non dobbiamo
dimenticare che alcuni degli uomini più pericolosi della milizia di Moqtada
Sadr nel 1991 hanno combattuto contro Saddam, colui che abbiamo prima sostenuto
e poi tradito. Saddam, naturalmente, sapeva come affrontare la resistenza. "Non
verrà tollerata.", diceva ai suoi ufficiali. E tutti sappiamo cosa voglia dire.
No, gli americani non sono come l'esercito di Saddam, ma l'assedio di Falluja
probabilmente conferirà alla città lo status di "città eroica" per le
generazioni future di iracheni sunniti, esattamente come oggi lo è Basra,
assediata dalle orde di Saddam nel 1991, per gli sciiti.

Eppure, dobbiamo starcene zitti. Mi ricordo quando, l'autunno scorso, la
conventicola dei neoconservatori di destra che avevano spinto l'amministrazione
Bush verso questa guerra, è improvvisamente stata ridimensionata. Cos'era
questa cosiddetta lobby neo-conservatrice dietro Bush e Cheney, voleva sapere
un giornalista del New York Times, questi cosiddetti ex sostenitori del Likud
israeliano? Uno di loro, Richard Perle, qualche settimana fa ha partecipato
insieme a me ad un programma radiofonico, ed insisteva nel dire che le cose
stavano andando meglio in Iraq, che stavamo riuscendo a portare un po' di
democrazia in Mesopotamia.

Appena ho accennato che questo mi sembrava più che altro un caso eclatante di
autoconvincimento, Perle ha risposto che Fisk "è sempre stato a favore del
mantenimento del regime Baath". Ho ricevuto il messaggio. Chiunque condanni
questo disastro sanguinoso è segretamente un Baathista, un ammiratore del
dittatore e dei suoi torturatori. I falchi di Washington sono decisamente
caduti in basso.

Naturalmente il principio dello "statevene zitti" funziona anche al contrario.
Il 16 marzo del 2003, mentre il mondo era ossessionato dal pensiero della
guerra che sarebbe poi scoppiata tre giorni dopo, si consumò un'altra tragedia
su un diverso campo di battaglia, 500 miglia a ovest di Baghdad. Quel giorno un
soldato israeliano ed il suo comandante travolsero, con una ruspa di nove
tonnellate, una giovane pacifista americana di nome Rachel Corrie. Rachel era
disarmata, chiaramente visibile col suo giubbotto fluorescente e stava cercando
di proteggere una casa palestinese che gli israeliani volevano distruggere. La
ruspa faceva parte degli aiuti mandati regolarmente dagli USA in Israele.
Israele ha assolto il proprio esercito da qualsiasi responsabilità per la morte
di Rachel, che tra l'altro è stata filmata dai suoi amici inorriditi, e
l'amministrazione Bush è rimasta vigliaccamente silenziosa.

Cindi, la madre di Rachel, distrutta da dolore, è stata il ritratto della
dignità. Ha scritto: "I cittadini americani dovrebbero chiedersi come può
succedere che un cittadino statunitense disarmato possa essere ucciso
impunemente da un soldato di una nazione alleata, che riceve quantità enormi di
aiuti dagli USA...quando il 15 ottobre del 2003, tre americani furono uccisi,
presumibilmente da palestinesi in un'esplosione.l'FBI arrivò nel giro di 24 ore
per indagare sulla loro morte. Dopo un anno, né l'FBI, né nessun altra squadra
investigativa statunitense, ha fatto qualcosa per indagare sulla morte di
un'americana uccisa da un israeliano.

La risposta è che ancheBush e la sua amministrazione sanno bene come si fa a
starsene zitti quando conviene loro. E' quello che all'inizio ha cercato di
fare anche Condoleeza Rice quando è stata convocata per l'udienza relativa
all'11/09. Grazie poi al servilismo di molti addetti stampa della Casa Bianca e
del Pentagono, l'amministrazione ha avuto decisamente vita facile. Perché, ad
esempio, negli incontri con la stampa non è mai stata fatta nessuna domanda su
Rachel Corrie?

Evidentemente basta dire "guerra al terrore!" per essere al sicuro da qualsiasi
critica. Non un singolo giornalista americano ha indagato sui collegamenti tra
le "regole di guerra" dell'esercito israeliano, passate allegramente di mano
all'esercito USA su ordine di Sharon, e il comportamento dei militari americani
in Iraq. La distruzione delle case dei "sospetti"; la detenzione, senza
regolare processo, di migliaia di iracheni; l'isolamento dei villaggi ritenuti
ostili con recinzioni di fil di ferro; il bombardamento di areee civili con i
lanciamissili degli elicotteri Apache e dei carrarmati alla caccia di
"terroristi", fanno tutti parte del lessico militare israeliano.

Nelle città assediate, quando si sono resi conto che il numero dei caduti e dei
civili uccisi era arrivato a livelli insostenibilmente vergognosi, l'esercito
israeliano dichiarava una "sospensione unilaterale dell'offensiva". Lo hanno
fatto 11 volte dopo l'assedio di Beirut nel 1982. E l'esercito americano, ieri,
ha dichiarato una "sospensione unilaterale dell'offensiva" a Falluja e
dintorni.

Non una parola è stata scritta dai giornalisti americani su questa misteriosa
similitudine, nessuna domanda è stata fatta sull'ancor più misterioso uso di un
identico linguaggio. Magari nei prossimi giorni scopriremo anche quanti dei 300
morti contati a Falluja erano militanti sanniti e quanti erano donne e bambini.

Seguire le regole di Israele porterà gli americani allo stesso disastro al
quale quelle stesse regole hanno condotto gli israeliani. Ma suppongo che ce ne
dovremo stare zitti. Alla fine, io sospetto, gli Iracheni avranno più voce in
capitolo sulle elezioni presidenziali americane di quanta ne avranno gli
americani stessi. Loro decideranno se il presidente Bush perderà o vincerà. Lo
stesso si può dire di Blair. È strano pensare che un paese di soli 26 milioni
di abitanti, un popolo così lontano, possa cambiare la nostra storia politica.
Per quanto riguarda noi, suppongo che ce ne dovremo stare zitti.

Note: Tradotto da Patrizia Messinese, il 14 aprile 2004. L'utilizzo di questa
traduzione e' liberamente consentito citandone la fonte (Associazione
PeaceLink) e l'autore (Patrizia Messinese)
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