L’ultimo stratagemma di Sharon: non cadiamo nella stessa fossa dei serpenti
Una delle caratteristiche politiche cruciali è, forse, l’abilità di distinguere l’illusione dalla realtà. Un’altra è quella di attirare l’avversario in un labirinto di miraggi perché non riesca più a concentrarsi su ciò che è realmente importante. Questo è precisamente quel che cerca di fare Sharon con i palestinesi e con il mondo, attraverso il suo piano per il “ritiro” unilaterale dalla Striscia di Gaza. Prima di analizzare la “chimera ” che Sharon cerca di realizzare, cerchiamo di vedere dapprima quale verità egli cerca di nascondere.
Sharon, l’uomo, non è mai cambiato e non ha mai cercato di cambiare le sue caratteristiche attuali. E’ lo stesso razzista fanatico che pensa di poter imporre uno status quo espansionista con la forza dei blindati e la distruzione. Il suo obiettivo è di raggiungere l’ebraicizzazione della Cisgiordania, e grazie a questo, di annullare ogni possibilità di creare uno Stato palestinese indipendente, uno Stato vitale e sovrano. Sharon vuole risolvere il problema demografico confinando i palestinesi in prigioni a cielo aperto, delle sacche isolate, dei ghetti isolati. Poiché è fallita la messa in opera del trasferimento esterno, spera di poter realizzare un trasferimento interno. Egli spera che un giorno i palestinesi emigreranno avendo perso ogni speranza di poter vivere una vita decente a casa loro. In altre parole, Sharon spera di perpetuare l’occupazione insieme ad un sistema di apartheid, il peggior sistema che si sia mai visto nella storia umana. La sua visione di un ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza mira a tirare fuori Israele da una profonda crisi economica, di sicurezza, politica e demografica, una crisi provocata da questa stessa occupazione che egli spera di perpetuare. La principale causa della crisi israeliana non è solo la visione a breve termine dei suoi governi, ma anche la rinnovata sollevazione e la continua resistenza contro l’occupazione. Israele capisce che si avvicina il momento come con la prima Intifada in cui il costo dell’occupazione supera i benefici che ne può trarre. Una situazione simile è una di quelle situazioni che Israele non può tollerare né sopportare, sarebbe una situazione che potrebbe portare forzatamente alla fine dell’occupazione, quindi a stabilire una pace reale. All’epoca della prima Intifada, solo le inafferrabili strade di Oslo hanno potuto preservare Israele dalla crisi grazie a questo tallonamento laborioso nel corso del quale delle soluzioni parziali, transitorie e provvisorie, hanno soppiantato gli obiettivi della lotta dei palestinesi e le questioni cruciali del conflitto. Le penose carte di Oslo (le regioni A, B, e C) hanno distratto dalla questione dei profughi, dalla questione di Gerusalemme, dall’occupazione, dal problema delle colonie e delle frontiere. A quell’epoca Israele aveva prospettato l’illusoria esistenza di una direzione nazionale [palestinese, ndt] interna e alternativa come meccanismo d’intimidazione e costringere l’Olp ad appiattirsi su Oslo, senza calcolarne le conseguenze. Oggi, la minaccia di vedere “Hamas impadronirsi del potere a Gaza” è usata con lo stesso scopo. Non esiste un limite alle anomalie di Sharon che possono indurlo a brusche decelerate, ma è difficile negare la sua attitudine al calcolo strategico. E’ innegabile che il piano di Sharon per Gaza comporta la realizzazione di cinque obiettivi strategici:
1. Distogliere l’attenzione dalle colonie e dal Muro, guadagnare tempo per proseguire la costruzione criminale del Muro, annettere ed ebraicizzare al meno il 58% della Cisgiordania e trasformare il resto in prigioni, cantoni e ghetti. Ciò annienterà ogni speranza verso uno Stato palestinese indipendente e sovrano così come verso una pace reale.
2. Spingere i palestinesi in una guerra civile alfine di minare sia l’Autorità Nazionale Palestinese che i movimenti nazionalisti e islamici, favorendo così la frammentazione dei palestinesi e la riduzione della loro direzione nazionale a semplici “prefetti di polizia” e agenti di sicurezza al servizio dell’occupazione.
3. Soppiantare la Road Map, che di fatto Sharon ha sempre rifiutato, con un piano israeliano unilaterale, eliminando di fatto tutto ciò che Sharon non vuole dalla Road Map (il congelamento di ogni forma di colonizzazione e la creazione di uno Stato palestinese entro il 2005). Rimpiazzando la Road Map con il suo piano, Sharon si assicura simultaneamente che siano fissati solo gli impegni dei palestinesi per la sicurezza, facendo così del popolo palestinese in assoluto la prima nazione sotto occupazione a dover garantire la sicurezza dei suoi occupanti.
4. Rompere l’isolamento internazionale crescente e ridurre i problemi ai quali devono far fronte le politiche israeliane di occupazione riguardo al Muro dell’apartheid.
5. Conservare l’iniziativa strategica e costringere i protagonisti palestinesi, arabi ed anche internazionali a giocare secondo regole fissate da Israele, a danzare al ritmo stabilito da Israele.
Nello stesso tempo, prosegue lo strangolamento brutale dell’economia nazionale palestinese. E’ in corso una campagna, tragicamente già coronata dal successo in alcune capitali, per colpire l’assistenza umanitaria ai palestinesi nei settori della salute, dell’educazione, degli affari sociali, e dei profughi. Ancora, ciò che resta di questa assistenza viene dirottato verso il consolidamento di altre strutture di sicurezza, come se tutta la vita dei palestinesi le attività sociali, economiche e scolastiche dovessero cessare d’esistere, riservando ai palestinesi una sola funzione, quella di agenti della sicurezza per l’esercito di occupazione e per i coloni. Compresi questi obiettivi strategici, un esame più approfondito dell’ “illusione” che Sharon crea riguardo al “ritiro dalla Striscia di Gaza” non rivela nulla di più che un trucco ammantato dall’ambiguità internazionale. Il piano di Sharon non è concepito per influire sul ritiro, ma per riorganizzare il controllo israeliano sulla Cisgiordania, rendendo questo meno costoso e pericolo per l’occupante. Coloro che pensano questo sia un vero ritiro, così come è concepito, dovranno spiegare prima di tutto come un simile piano può essere conciliato con quello che segue:
a) La demolizione costante di centinaia di case lungo la frontiera egiziana a Rafah, al ritmo di cinque case al giorno. In questa regione dove 82 bambini sono stati uccisi dall’esercito, è in atto un vero e proprio processo di pulizia etnica.
b) Diverse centinaia di nuovi ordini di confisca delle terre e l’espansione della superficie delle colonie a Deir el-Balah, Kfar Darom e Netzarim.
c) L’esclusione voluta da Sharon delle più importanti colonie della Striscia di Gaza dal cosiddetto piano di ritiro. Il premier Sharon evita inoltre ogni riferimento al ritiro dal corridoio che circonda la Striscia di Gaza da tutti i lati, corridoio tracciato su terre palestinesi.
L’assassinio del leader spirituale Sheih Ahmed Yassin, il 22 marzo scorso, era una palese provocazione di Sharon nel tentativo di provocare un nuovo ciclo di violenze senza precedenti, al fine di guadagnare tempo per applicare il suo piano. Azioni simili dimostrano chiaramente che questo piano è lungi dall’essere concepito come il ritiro dalla Striscia di Gaza, ma piuttosto per trasformare la Striscia di Gaza in una vera e propria prigione, circondata da ogni parte dalla presenza israeliana. Un ghetto nel quale un milione e trecentomila palestinesi sono rinchiusi, e che potrà servire da potenziale terra d’esilio per i dirigenti palestinesi (la Striscia è stata già usata come esilio per un certo numero di cittadini palestinesi espulsi dalla Cisgiordania). E’ vero che nessuno si opporrà al ritiro da ogni parte del territorio palestinese. E’ altrettanto vero che Sharon è stato costretto ad impegnarsi in simili manovre strategiche perché oggetto di pressioni, perché deve far fronte ad una crisi politica, di sicurezza e demografica, e perché non ha potuto mantenere la sua promessa di liquidare l’Intifada in cento giorni. Egli è alla guida del governo ormai da più di 1.100 giorni.
Tuttavia, sarebbe sbagliato interpretare il piano “prima Gaza” di Sharon come un riconoscimento di sconfitta. Questo piano è un tentativo di evitare la sconfitta, per chiudere i palestinesi in un labirinto peggiore di quello di Oslo. E’ un tentativo di Sharon di attirare gli arabi in una trappola (nella quale gli egiziani, fino a questo momento, sono riusciti saggiamente a non cadere), un tentativo di guadagnare tempo per portare a termine la ebraicizzazione della Cisgiordania, di distruggere il futuro del popolo palestinese, e di cancellare ogni speranza in pace giusta e reale. La risposta adeguata all’ultimo trucco di Sharon non è quella di cooperare con lui, permettendogli così di sfuggire ad una sconfitta inevitabile. La risposta non è quella di impegnarsi in una rivalità futile per decidere chi assumerà l’autorità in caso di ritiro. Ancora, la risposta non è di sedersi con Sharon e discutere della sua politica unilaterale, ciò darebbe legittimità a questo piano. La risposta, e questo è un consiglio sincero ai dirigenti politici in particolare, è seguire l’esempio degli abitanti di Na’alin e Budrus, Qibya e Beit Duqqu, Rafah e Qalqiliya, Badw e Deir Qiddis, Beit Leqia e di tutte le altre città e villaggi che lottano. La risposta è quella di confrontarsi con il Muro dell’apartheid e le mire dell’occupazione, concentrando tutta l’attenzione sulle sfide reali: la distruzione del Muro, mettere fine all’occupazione di tutte le terre palestinesi occupate, senza eccezione. La risposta non può che essere il proseguimento della resistenza contro le politiche israeliane. La risposta consiste nel confronto con la politica d’occupazione e di apartheid finché Israele non finirà per riconoscere il diritto che ha il popolo palestinese alla libertà, all’indipendenza e alla dignità. Per conseguenza, la risposta a Sharon dovrà essere la formazione di una direzione nazionale unificata, il consolidamento dell’unità nazionale, e l’adozione di principi democratici per affrontare le divergenze. La risposta deve essere nell’affermazione della sovranità della legge, la promozione del settore giudiziario, lo svolgimento di elezioni democratiche, il miglioramento dell’amministrazione della politica interna e l’accesso, per tutti i cittadini, alla sicurezza, alla stabilità e alla giustizia. Tutti devono unirsi in un progetto nazionale comune per mettere fine all’occupazione israeliana e alla colonizzazione, per preservare i diritti dei profughi e per giungere alla piena indipendenza. La risposta che deve essere data a Sharon sta nel consolidamento del fronte interno che ha sofferto per l’indisciplina e per il caos e per le rivalità faziose e personalistiche, che sono un prezzo troppo grande per l’interesse generale.
Traduzione del testo francese, diffuso da Solidarité Palestine il 6 aprile 2004, di Cinzia Nachira
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