Massacro in Thailandia
Un massacro dai contorni confusi e controversi che ha lasciato sul terreno oltre un centinaio di morti. Un attacco, secondo le ricostruzioni, che ieri all'alba, nelle province meridionali della Thailandia di Sonkhala, Yala e Pattani avrebbe visto in azione centinaia di militanti separatisti (poi si scoprirà che avevano solo tra i 15 e i 20 anni) che avrebbero compiuto un incredibile assalto a oltre una decina di posti di polizia. Armati solo di coltelli e qualche arma da fuoco. Pare che le forze dell'ordine sapessero e che avrebbero reagito con violenza, perdendo solo quattro uomini ma intervenendo anche in una moschea dove, fuggiaschi o semplici cittadini ¡ la cosa non è chiara ¡ si sarebbero rifugiati per scampare alla strage. A rendere più confuso il quadro, le dichiarazioni ufficiali. Il primo ministro Shinawatra parla di banditi, criminalità organizzata manovrata da qualche politico locale. Altre fonti invece accreditano l'islam radicale che avrebbe tentato un colpo grosso. Finito in massacro.
Il copione sembra ripetersi a distanza di quattro mesi, quando la Thailandia si scoprì in emergenza a gennaio, dopo l'incendio di una ventina di scuole e un attacco a una caserma dove scomparvero oltre 300 fucili. Anche allora si pencolò tra banditi e radicali, con l'aggiunta di un pizzico di Al Qaida che non guasta mai. Si scatenò una sorta di regime del terrore nel quale la polizia aveva carta bianca e i musulmani l'opzione di nascondersi o andare oltre confine. Un confine poroso, quello con la Malaysia, dove ogni giorno migliaia di persone fanno la spola tra i due paesi.
Lo scenario è quello delle cinque province «musulmane» di Songkhla, Satun, Yala, Narathiwat e Pattani dove la minoranza malese è una realtà che, nelle ultime tre, sfiora l'85% della popolazione. Gente sempre un po' malvista per via che solo da un secolo è thailandese: prima sudditi di un sultanato, poi del regno siamese il cui giogo è stato sempre mal sopportato, come segnalò la vampata separatista a metà degli anni `80. I thailandesi hanno sempre visto con sospetto questa gente così diversa e le centinaia di ponoh, le madrasa locali, che contano quasi 9mila studenti, maldigerite dal sistema educativo nazionale. Illegali, dice qualcuno, riferendo di un bando del `99.
I thailandesi avevano anche tentato il pugno di ferro nel guanto di velluto e aperto in loco due istituzioni governative a metà tra agenzia di sviluppo e controllo di polizia. Negli anni `90 le cose un po' erano migliorate. Ma poi Shinawatra le ha chiuse riducendo gli investimenti.
In questo malessere atavico e diffuso, qualsiasi malapianta cresce bene. Dunque anche quella dell'islam radicale, fors'anche - ma sono ipotesi - foraggiato dall'esterno. Fatto sta che anche seguendo la pista islamica, c'è qualcosa che non funziona nella strage che ieri veicolava bollettini da guerra civile. Se è vero che le pattuglie dell'islam radicale contano su qualche migliaio di adepti e che nella regione si vendono bene le T-shirt con la faccia di Osama, è difficile credere che un movimento d'élite (sufficientemente ben addestrato da sottrarre trecento armi da fuoco all'esercito) abbia adesso optato per una sortita kamikaze di giovani ragazzi senza addestramento e senza armi.
E' vero altresì che le forze dell'ordine impiegate nel Sud sono sotto stress: non solo perché non hanno mai arrestato i colpevoli del furto e dell'attacco di gennaio, ma nemmeno gli autori dei vari attentati bombaroli di questi mesi e di uno stillicidio che, in termini di vittime, parla di oltre sessanta tra poliziotti e funzionari fatti fuori negli ultimi mesi. Poco inoltre si sa dei modi che intelligence e polizia locale, non teneri per fama, utilizza con i «sospetti», in un clima da caccia alle streghe poco documentato. Buco nero di un paese che ha parecchi altri guai (una percentuale spaventosa di casi di Aids e un tracollo economico nel settore dell'avicoltura dovuto alla febbre dei polli a lungo tenuta nascosta dal governo), non è la trasparenza una delle qualità della Thailandia di Thaksin Shinawatra.
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