Un giallo senza precedenti. La Chiesa non abbandona il caso
A quattro mesi dall'uccisione di monsignor Michael Courtney, pochi chilometri fuori dell'abitato di Minago sulla strada tra Bujumbura e Rumonge, l'unico fatto certo è che è stato eliminato l'ambasciatore del Papa che si era adoperato per il rispetto degli accordi di pace e di riconciliazione e stava per terminare il proprio mandato partendo alla volta di Cuba.
Di vescovi ne sono stati assassinati diversi in giro per il mondo - in Burundi nel 1996 fu stroncato Joachim Ruhuna, arcivescovo di Gitega -; di missionari ne sono stati trucidati molti di più - tre uccisi dai militari nel '95 anche a Bururi -, ma l'assassinio di un nunzio apostolico è un evento mai verificatosi nella storia. Ciononostante la notizia della tragica imboscata al monsignore irlandese, lo scorso 29 dicembre, non tenne a lungo la pagina dei giornali, con l'eccezione di quelli cattolici: morire in Africa fa sempre poco clamore. Nei mesi successivi il giallo è rimasto all'ordine del giorno soltanto nelle riservate stanze della Curia vaticana e nelle denunce dei missionari di Nigrizia e di Misna. La rivista comboniana ha chiesto pubblicamente che ad aprire un'inchiesta indipendente sull'uccisione di Courtney sia il Pontificio consiglio giustizia e pace, con l'intenzione di liberare la vicenda dai normali condizionamenti del circuito diplomatico guidato dalla Segreteria di stato e, soprattutto, oltrepassando le contraddizioni della gerarchia burundese.
La Conferenza dei vescovi locali, infatti, sembra starsene della versione ufficiale secondo cui il nunzio sarebbe stato ucciso da uomini dell'Fnl, per giunta schegge impazzite del movimento ribelle. C'è chi parla addirittura di un tentativo di sequestro finito male, benché i "colpevoli", una volta arrestati, abbiano raccontano storie contraddittorie. I comboniani contestano la frettolosa versione dei vescovi locali scrivendo: «La Chiesa del Burundi deve avere il coraggio di domandare chi l'ha ucciso, non certo per vendicarne la morte, ma per conoscere i nomi di chi vuole la pace e chi la guerra».
I funerali di Courtney sono stati celebrati in Irlanda dal cardinale nigeriano Francis Arinze, la celebrazione in memoria nella basilica di San Pietro è stata tenuta dal cardinale Angelo Sodano, le autorità del Burundi hanno osservato il lutto, ma tutto si è svolto senza polemiche. Eppure la Segreteria di stato vaticana non ha affatto rinunciato ad un'inchiesta internazionale che accerti le responsabilità. Non l'ha però chiesta ufficialmente celando il desiderio che, trattandosi di un diplomatico, l'iniziativa venga assunta da altri soggetti, magari dal governo dell'Irlanda, che è patria di Courtney. In questa particolare direzione si stanno muovendo gli stessi comboniani di Nigrizia che - come ci racconta il direttore padre Carmine Curci - hanno già scritto alla Conferenza episcopale di Dublino e nelle prossime settimane affronteranno nuovamente il caso sulla rivista.
Nella diplomazia pontificia, tuttavia, prevale la convinzione che finché il Burundi non andrà alle elezioni - si spera ad ottobre - e a Bujumbura non si insedierà un governo riconosciuto da tutti, sia impossibile e perfino controproducente scavare sotto il terreno. Precedenza alla riconciliazione nazionale, sostengono in Vaticano, ben sapendo che in Burundi l'assassinio del nunzio non è l'unico crimine rimasto impunito e coperto in questi ultimi mesi. Ma i missionari temono che, se non si farà luce subito sulle responsabilità, sarà poi difficile che la pace regga a lungo. In realtà nella Chiesa sono in molti a sospettare che dietro questa vicenda ci siano anche pesanti colpe dell'esercito o perlomeno di suoi settori. Replicano però dalla Comunità di Sant'Egidio, altra protagonista della diplomazia cattolica in Burundi, che anche su questi indizi bisogna procedere con attenzione. Don Matteo Zuppi, che dal 1998 al 2000 partecipò alle trattative tra ribelli e governativi approdate agli accordi di Arrusha, raccomanda di «andare cauti e verificare», senza però calare il silenzio.
Su un aspetto del dramma tutti concordano: chi ha ucciso Courtney ha voluto colpire e intimorire i sostenitori della pace interna essendo interessato a lucrare sulla guerra perenne. Il nunzio, che si trovava nel paese africano dal 2000, era un esperto diplomatico, già passato per Senegal, India, Jugoslavia, Egitto e, come osservatore, dal Parlamento europeo.
Che cosa c'è da accertare? Tutto o quasi. Nella versione del governo e della magistratura burundese la gente del posto avrebbe riconosciuto gli assassini, a cominciare da un ragazzo di venti anni - Dieudonne Hakizimana - che poi avrebbe confessato di appartenere al Fronte nazionale di liberazione, di etnia hutu, l'unico movimento armato a non aver accettato gli accordi di riconciliazione derivati dalla mediazione di Nelson Mandela. Qualche giorno fa l'Fnl ha annunciato un cessate il fuoco unilaterale ma da allora le agenzie parlano di 36 ribelli uccisi dai militari.
Se gli assassini del nunzio fanno capo all'Fnl - obiettano i missionari - perché proprio quel movimento, respingendo le accuse, ha rivendicato una commissione di inchiesta internazionale mentre il governo l'ha sbrigativamente rifiutata? Radiovaticana ha dato voce a opinioni opposte, intervistando il vescovo di Bururi, Bernard Bududira, il quale, scagionando i militari, ha raccontato che la decisione di viaggiare senza scorta era stata presa dal nunzio e che l'esercito sapeva soltanto che i ribelli si trovavano sulle montagne.
Il Burundi è tragicamente diviso, come il Rwanda, tra le etnie tutsi e hutu. Ma se si vogliono individuare i falchi della guerra - osservano tutti - bisogna cercare all'interno di ognuna delle etnie. L'Fnl è ridotta a duemila combattenti hutu mentre, dopo molte resistenze, il presidente golpista tutsi Buyoya ha lasciato il posto a Domitien Ndayezeye, un hutu moderato che dovrebbe portare il paese alle elezioni. «Ci saranno», si è limitato a risponderci in occasione della sua recente visita a Roma. Ma l'esercito è ancora quasi tutto in mano ai tutsi. E secondo la ricostruzione dell'agenzia Misna la domenica pomeriggio dell'agguato lungo la strada del lago Tanganika, la route numero tre, c'era uno strano passaggio di militari. Un drappello di soldati transitò a piedi accanto all'auto del nunzio già agonizzante, senza prestare soccorso. La capitale è a quaranta chilometri dal luogo degli spari ma monsignor Courtney non venne ricoverato all'ospedale militare, più efficiente, bensì nella clinica "Prince Rwagasore" dove arrivò morto alle 15.30, tre ore prima che la notizia venisse diffusa.
Suscita dubbi anche il fatto che, malgrado la segnalazione di scontri armati lungo il tragitto, lo stato maggiore avesse lasciato l'auto diplomatica del nunzio senza scorta. Nella prima versione ufficiale dei fatti si parlava di colpi sparati dalla collina senza un preciso obiettivo. Ma le testimonianze raccolte dai missionari descrivono tutt'altra scena: spari diretti con precisione, prima contro la parte posteriore della jeep Discovery dove era seduto Courtney, quindi contro il tetto della vettura per colpire il prelato alla testa. C'è ancora molto da capire dalla scena del delitto e dall'autopsia dell'arcivescovo.
Intanto a Bujumbura è giunto il nuovo nunzio, monsignor Richard Gallagher, che la Santa Sede ha nominato rapidamente per non far pensare che si abbandoni il campo.
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