Conflitti

Iraq: La tortura fa notizia ma non è nulla di nuovo

11 maggio 2004
di John Pilger - trad. Miguel Martinez
Fonte: Kelebek - The Mirror

Quando iniziai a scrivere servizi sulla guerra americana contro il Vietnam, negli anni Sessanta, visitai gli uffici dei grandi giornali e televisioni statunitensi e le agenzie stampa internazionali.

Mi colpì il fatto che molti avevano immagini simili sulle loro bacheche: "Ecco dove appendiamo le nostre coscienze", mi disse il fotografo di un'agenzia.

C'erano le foto di corpi smembrati, di soldati che sollevavano orecchie e testicoli tagliati, e si vedevano anche le torture in corso. C'erano uomini e donne che venivano picchiati a morte, annegati e umiliati in maniera rivoltante. Su una foto si leggeva un fumetto, sopra la testa del torturatore, che diceva: "così impari a parlare con la stampa".

Tutte le volte che i visitatori vedevano queste foto, ponevano la stessa domanda: perché non sono state pubblicate? La risposta standard era che i giornali non le avrebbero pubblicate, perché i loro lettori non le avrebbero gradite. Pubblicarle, senza spiegare le circostanze più ampie della guerra, sarebbe stato "sensazionalismo".

All'inizio, accettai l'apparente logica di questa posizione. Le atrocità e le torture commesse da "noi" erano certamente aberrazioni per definizione. Imparai però velocemente. Infatti, questa razionalizzazione non spiegava la crescente evidenza di civili uccisi, mutilati, privati delle loro case e fatti impazzire dalle bombe "anti-uomo" lanciate sui villaggi, sulle scuole e sugli ospedali.

Né spiegava i bambini trasformati in una polpa ribollente da qualcosa che si chiamava napalm, o i contadini cacciati con gli elicotteri nelle "cacce al tacchino", né un sospetto torturato a morte con una corda attorno al collo, trascinato dietro una jeep piena di soldati americani drogati e ridenti.

Né spiegava perché tanti soldati conservavano parti di corpi umani nei loro portafogli, o perché gli ufficiali delle forze speciali tenevano teschi umani nelle loro capanne, con la scritta sopra: "Fuori uno, manca ancora un milione" ("One down, a million to go"). Philip Jones Griffiths, il grande fotografo freelance gallese con cui lavoravo nel Vietnam, cercò di fermare un ufficiale americano che stava per far saltare in aria un gruppo rannicchiato di donne e bambini.

"Sono civili," gridò.

"Quali civili?" arrivò la risposta.

Jones Griffiths e altri cercarono di interessare le agenzie stampa alle foto che raccontavano la verità su quella guerra atroce. La risposta spesso fu: "Ma cosa c'è di nuovo?"

La differenza oggi è che la verità dell'invasione ugualmente atroce da parte degli angloamericani in Iraq fa notizia. I documenti del Pentagono che sono stati scoperti indicano chiaramente che la tortura è diffusa in Iraq. Amnesty International dice che è "sistematica."

Eppure è solo adesso che iniziamo a identificare l'elemento indicibile che unisce l'invasione del Vietnam all'invasione dell'Iraq. Questo elemento è comune alla maggior parte delle occupazioni coloniali, in ogni luogo e tempo. È l'essenza dell'imperialismo, una parola che solo adesso viene reintrodotta nel nostro vocabolario. È il razzismo.

In Kenya, negli anni Cinquanta, gli inglesi massacrarono qualcosa come 10.000 kenioti e gestirono campi di concentramento dove le condizioni erano talmente atroci che 402 detenuti morirono nel giro di un solo mese. La tortura, la fustigazione e l'abuso delle donne e dei bambini erano all'ordine del giorno. "Le carceri speciali - scrive lo storico dell'impero, V.G. Kiernan - erano probabilmente terribili quanto qualunque analoga struttura nazista o giapponese".

All'epoca, tutto ciò non faceva notizia. Il "terrore Mau Mau" veniva raccontato e percepito in un solo modo: come i "demoniaci" neri contro i bianchi. Il messaggio razzista era chiaro, ma non si faceva mai cenno al nostro razzismo.

In Kenya, come nel fallito tentativo americano di colonizzare il Vietnam, come in Iraq, il razzismo ha alimentato gli attacchi indiscriminati ai civili e la tortura. Quando sono arrivati nel Vietnam, gli americani vedevano i vietnamiti come zecche umane. Li chiamavano "gooks" e "dinks" e "slopes" e li uccidevano in quantità industriali, proprio come avevano massacrato i nativi americani; anzi, il Vietnam stesso veniva chiamato "territorio indiano".

In Iraq è la stessa storia.

Vantandosi apertamente dell'uccisione di "topi nel loro nido", i cecchini dei Marines statunitensi che hanno ucciso donne, bambini e vecchi, proprio come i cecchini tedeschi uccidevano gli ebrei nel ghetto di Varsavia, riflettevano il razzismo dei loro superiori. Paul W Wolfowitz, il sottosegretario alla difesa che, si dice, sarebbe l'architetto dell'invasione dell'Iraq, ha parlato di "serpenti" e di "prosciugare le paludi" nelle "parti non civilizzate del mondo".

Gran parte di questo razzismo imperiale moderno è stato inventato in Inghilterra. Ne possiamo sentire le espressioni sottili, quando i portavoce inglesi trovano parole subdole per rifiutarsi di riconoscere il numero di iracheni uccisi o mutilati dalle bombe a grappolo, i cui effetti non sono per nulla diversi da quelli degli attentatori suicidi; si tratta di armi di terrorismo. Ascoltate il ministro delle forze armate, Adam Ingram, che fa i suoi noiosi discorsi in parlamento, mentre si rifiuta di dire quante persone innocenti sono state vittime del suo governo.

Nel Vietnam, l'assassinio di donne e bambini nel villaggio di My Lai venne chiamato una "Tragedia americana" dalla rivista Newsweek. Prepariamoci ad altra retorica di questo tipo, che chiede la nostra simpatia per la "tragedia" degli invasori.

Nel Vietnam, gli americani si sono lasciati dietro tre milioni di morti e una terra, un tempo ricca, devastata e avvelenata dagli effetti delle armi chimiche che avevano adoperato. Mentre i politici e Hollywood hanno pianto i soldati americani dispersi, chi si è mai preoccupato dei vietnamiti?

In Iraq è la stessa storia.

Secondo le stime più moderate, gli americani e gli inglesi hanno ucciso 11.000 civili. Se aggiungiamo anche i soldati iracheni arruolati, la cifra deve essere moltiplicata per quattro.

"Noi contiamo fino all'ultimo cacciavite, ma non contiamo gli iracheni morti" disse un ufficiale americano durante il massacro del 1991. Adam Ingram non riesce forse a esprimersi altrettanto bene, ma il disprezzo per la vita umana è lo stesso.

Sì, le atrocità e le torture fanno notizia oggi. Ma in che modo fanno notizia, si chiede lo scrittore Ahdaf Soueif. Un presentatore del telegiornale della BBC descrive le foto delle torture come "semplici souvenir". Certo: proprio come le parti di corpi umani conservate nei portafogli nel Vietnam.

I commentatori della BBC - sempre il migliore esempio di come la pensa l'establishment inglese - ci ricordano che la tortura e l'umiliazione dei soldati "non è paragonabile alle sistematiche torture ed esecuzioni commesse da Saddam Hussein". Commenta Ahdaf Soueif: "Saddam è diventato il termine di paragone morale su cui l'Occidente misura il proprio comportamento".

Non possiamo restituire le vite irachene che sono state spente o rovinate da chi ha agito nel nostro nome. Come minimo, dobbiamo esigere che chi è responsabile di questo delitto epico esca dall'Iraq subito, ed esigere anche di avere la possibilità di portarli in tribunale e giudicarli, e di fare ammenda al popolo iracheno. Se facciamo di meno, non ci meritiamo la qualifica di persone civilizzate.

Note: Questo testo è uscito per la prima volta su The Mirror dell'8 maggio 2004. Traduzione di Miguel Martinez
questo articolo può essere riprodotto liberamente,
sia in formato elettronico che su carta, a condizione che
non si cambi nulla, che si specifichi la fonte - il sito web Kelebek http://www.kelebekler.com -
e che si pubblichi anche questa precisazione

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